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Racconti da masticare

Esistono al mondo due generi di persone: quelle che, una volta adulte, custodiscono le storie della propria infanzia solo come bei ricordi, gemme delicate conservate in qualche luogo segreto, e quelli invece che continuano a rifletterci sopra, ad ammirarle come pietre preziose troppo belle per essere affidate alle tenebre. Senza voler dare giudizi di merito, credo sia questo secondo gruppo d’individui quello che si rende conto, prima o poi, della differenza che sussiste fra la favola ed il racconto per bambini.

A mio parere si tratta di qualcosa che non inerisce né alla mera qualità letteraria né alla concreta utilità per i più piccoli; ambedue i tipi di opere infatti possono scaturire da penne di prim’ordine ed essere storie che, pur se in modo differente, hanno la loro importanza nella nostra crescita come persone. Ciò che davvero distingue questi due generi di narrativa è la relazione che instaurano con gli adulti.

I racconti per bambini posseggono un valore prettamente pedagogico: il loro scopo è intrattenerci ed accompagnarci nei nostri primi anni di vita, lasciandoci poi andare una volta raggiunta la meta. Due elementi li caratterizzano in tal senso: sono fruibili dai più piccoli senza bisogno del sostegno di un adulto e, come detto, lasciano dietro di sé insegnamenti e dolci ricordi. Io, per esempio, ritengo tali i libri della serie Goosebumps, noti in Italia come Piccoli brividi1: non solo sono pensati per intrattenere dei giovani lettori, ma hanno, a mio parere, lo scopo d’introdurre alla lettura attraverso tutta una serie di stratagemmi; una volta superata l’età giusta, non resta altro che custodirne la memoria con affetto.

Le favole invece stringono un doppio legame con l’età adulta: per prima cosa, dovrebbero essere fruite dal bambino solo assieme ad una persona più grande, per il semplice fatto che alcuni dei contenuti sono edificanti solo se mediati. In secondo luogo posseggono dei livelli di lettura che, oscuri ai più piccoli, possono divenire occasione di riflessione una volta raggiunta l’età adulta. La favola non diviene necessariamente un semplice ricordo; può invece venire custodita, gustata negli anni, finché quella semplice vicenda che ci aveva intrattenuti da bambini non inizia nuovamente a parlare al nostro cuore, reso più fine dagli anni.

Non vi nascondo che ho sempre ammirato gli adulti capaci di tornare fruttuosamente sulle proprie favole ed ho sempre ritenuto sfortunati coloro che invece le trattano come semplici racconti d’infanzia. Per questa ragione, lieto di potermi annoverare fra i primi, proverò a mostrarvi cosa ho ottenuto a trentasei anni da una delle migliori favole della mia infanzia.

Il re leone

Sto parlando di The Lion King, trentaduesimo lungometraggio animato della Walt Disney Pictures uscito nel 1994 e diretto da Roger Allers e Rob Minkoff2. L’opera è talmente nota che non credo sia necessaria più di una sommaria introduzione; attraverso l’antica tecnica dell’antropomorfizzazione degli animali, la narrazione sviluppa una storia dal sapore vagamente shakespeariano, epica, drammatica e malinconica allo stesso tempo, un racconto potente di maturazione e conflitto che regala molteplici spunti di riflessione.

Riassumendo, il leoncino Simba, figlio del re Mufasa e della regina Sarabi, si trova coinvolto nei complotti dello zio Scar, fratello del re e deciso a salire al trono a qualunque costo. La brutale uccisione del buon sovrano, della cui responsabilità il giovane protagonista viene ingiustamente caricato, consente all’usurpatore di assurgere al trono, sostenuto da un esercito di iene affamate. Simba, esiliatosi in un’oasi paradisiaca, cresce a fianco degli amici Timon e Pumbaa, un suricato ed un facocero; egli raggiunge al loro fianco l’età adulta, portando avanti una filosofia di vita fondata sul rifiuto di ogni problema e responsabilità, oltre che su di un certo fatalismo. Raggiunto dall’amica d’infanzia Nala, disperata per il malgoverno di Scar, Simba compie un percorso di maturazione spirituale e, riconciliatosi con il suo passato, affronta e sconfigge il malvagio zio riprendendosi il regno3.

All’interno di questa cornice si sviluppa la scena sulla quale mi sono più volte soffermato a riflettere. Al termine dell’allegra canzone che espone la filosofia di vita di Simba e dei suoi due sodali4, il trio ci viene presentato intento a digerire contemplando placidamente un meraviglioso cielo stellato. In questo contesto, alla conclusione di un giorno probabilmente uguale a molti altri, Pumbaa pone inaspettatamente una domanda: che cosa sono le stelle?

I tre personaggi rispondono proponendo differenti spiegazioni circa la natura degli astri notturni; la scena non dà vita ad un dibattito, bensì all’esposizione di prospettive diverse e non necessariamente contraddittorie. Narrativamente lo scopo è di mostrare quanto l’animo del protagonista, apparentemente acclimatatosi a quell’esistenza insulsa, sia invece in subbuglio, incapace di accogliere fino in fondo uno stile di vita che per sua stessa natura nega la tensione alla grandezza spirituale che gli è stata insegnata e trasmessa dal defunto padre. È importante quindi capire che il tutto s’inserisce in una dinamica di maturazione che prevede la comprensione profonda dell’eredità paterna; ciò non c’impedisce tuttavia di estrapolare dalle spiegazioni fornite dai tre personaggi altrettante vie per rispondere all’umano desiderio di comprendere il mondo e la vita.

Il primo a rispondere è Timon: egli afferma di non porsi simili domande poiché possiede già risposte chiare e convincenti; a suo dire, le stelle sono lucciole rimaste attaccate per caso al cielo. Il suricato rappresenta simpaticamente un approccio severamente pragmatico all’esistenza, una modalità che rifiuta ogni interrogativo che non abbia un immediato riscontro pratico. La sua risposta è più infantile che mitica e riflette un’indifferenza verso le questioni speculative che porta ad accettare qualunque spiegazione.

Segue immediatamente Pumbaa: il facocero è apparentemente il più sciocco dei tre ma in verità possiede una mente curiosa, non priva di una sua acutezza. Egli espone in poche parole la spiegazione che la scienza sperimentale dà delle stelle, una mirabile sintesi della loro natura fisica. La fanciullesca fiducia che ripone in Timon lo porta tuttavia a mettere da parte con estrema facilità la risposta da lui elaborata in favore di quella del suricato. Pumbaa rappresenta l’approccio scientifico e sperimentale alla realtà: nasce da una sana curiosità verso ogni fenomeno e si avvale di un uso formalmente corretto della ragione; eppure non riesce a penetrare fino in fondo ciò che studia. S’arresta cioè alla loro superficie, agli aspetti osservabili e quantificabili, portandosi dietro sempre un senso d’incompletezza che è destinato a non poter sciogliere con le sue forze.

Infine risponde Simba: egli ripete ciò che Mufasa, suo padre, gli ha insegnato ed afferma che le stelle sono i grandi re del passato che osservano e proteggono i viventi, guidandoli sulla retta via. Questa risposta spirituale genera la squallida derisione di Timon, alla quale tuttavia il protagonista non si unisce. Sarà invece l’inquietudine da essa prodotta a scatenarne la conversione. Simba rappresenta l’approccio conoscitivo spirituale, religioso se vogliamo; esso non nasce dai suoi ragionamenti ma dalla testimonianza ricevuta e si radica nella credibilità dei testimoni stessi. Non pretende di spiegare il cielo stellato in se stesso, bensì le ragioni profonde che lo rendono così attraente per chi l’osserva.

Lo sguardo dello spirito

Penso sia impossibile rimanere indifferenti di fronte alla semplice immediatezza con cui questa stupenda favola espone i diversi possibili approcci alla realtà. Anche se la questione non viene più risollevata esplicitamente, possiamo rilevare che il seguito del racconto riconosce la superiorità della lettura di Simba. Proprio dal cielo infatti egli riceve l’apparizione di Mufasa, motore di una “conversione” del giovane che è una vera e propria crescita spirituale. Tale maturazione coinvolge indirettamente anche gli stessi Timon e Pumbaa i quali, prendendo parte alla purificazione del male di cui Simba si è fatto carico, sfuggono con lui all’insulsa piattezza delle loro esistenze rispondendo, al tempo stesso, alla ragione profonda che li portava a guardare le stelle.

Se proviamo ad uscire dai limiti imposti dal racconto ci rendiamo conto che dietro alla simbolicità della sua rappresentazione si cela la nostra relazione con la realtà. Inutile dire che l’approccio pragmatico e quello scientifico, pur nella loro diversità, si contrappongono a quello spirituale in maniera più netta di quanto fanno reciprocamente. Essi infatti parlano di un accostamento al reale ancora legato ad un piano orizzontale, ad una comprensione che non trascende i limiti imposti dalla concretezza dell’oggetto. Poco importa alla fine che gli astri, così come qualunque altro fenomeno, vengano analizzati sul piano della conoscenza pratica o di quella speculativa; rimane il fatto che il sapere che se ne ricava non trascende la mera materialità, non parla direttamente allo spirito dell’uomo. Non sto con questo dicendo che sia inutile o dannoso, anzi; semplicemente si dimostra incapace, da solo, di rispondere appieno all’umano desiderio di conoscenza.

L’approccio spirituale d’altro canto non rifiuta la semplice esperienza del reale ma, prendendola come punto di partenza, la trascende. Esso non fa riferimento al mero fenomeno bensì al suo legame con la parte più profonda dello spirito umano. In altri termini, chi guarda le stelle con questi occhi non scorge in esse la banalità di oggetti lontani ma il segno concreto di un richiamo che attira l’uomo al divino.

Questa prospettiva sul mondo e sull’esistenza non si limita a specifici oggetti: accogliere un approccio spirituale significa vedere l’universo intero rifulgere di significato ed infine scorgere in ogni esperienza un accenno, un bisbigliato riferimento al divino. Non si tratta di caricare dei semplici oggetti di un simbolismo giustapposto, bensì di cogliere nel loro essere creature quel legame con il Creatore che spesso fatichiamo a riconoscere in noi. Per l’uomo spirituale la creazione è colma d’indizi, di prove che conducono ad un Amore che è principio e scopo di ogni cosa.

La favola tuttavia non c’invita semplicemente a spalancare gli occhi ed a lasciar correre libera l’immaginazione. La luce dello spirito sul mondo non s’inventa ma si riceve, si eredita e si trasmette; questo non perché qualcuno ne sia stato una volta inventore ma perché è dono celeste per il quale l’uomo può solo rendere grazie.

Inutile dire che il cristiano ritrova in questa realtà il nebuloso accenno ad una condizione che la sua fede vive ed incarna perfettamente. La Luce del Vangelo, donataci da Cristo stesso e trasmessa dalla Chiesa a tutto il mondo, è ciò che perfettamente apre gli occhi del nostro spirito alla presenza di Dio. Egli, Creatore di tutte le cose, rifulge, pur se in diversa misura, tanto nell’intimo del nostro essere quanto nello magnificenza del creato; per questo il credente, misticamente unito al Figlio di Dio nella Carità, ha la possibilità da un lato di scorgere Dio nelle creature, amandolo attraverso di esse, e dall’altro di cogliere nell’Onnipotente la reale bellezza di ciò che lo circonda.

Questo sguardo mistico sul mondo non è, ci tengo a dirlo, un modo di sminuire l’intrinseco valore delle creature e dei fenomeni; al contrario, ogni cosa mostra la sua autentica luce partecipando nell’Amore a quel tenero amarsi del Creatore e della creatura cui l’uomo dà voce.


1 Si tratta di una collana di 62 libri per ragazzi pubblicati fra il 1992 ed il 1997 da Robert Lawrence Stine. La loro principale caratteristica era il saper condensare, all’interno di racconti brevi, non solo molti stereotipi del genere horror ma anche il mondo giovanile, proprio dei lettori cui erano indirizzati. Il tutto avveniva con una certa dosa di ironia; cf Wikipedia (english version), R. L. Stine e Goosebumps, consultate il 2023.12.08.

2 Come noto, il titolo italiano è Il re leone. Si tratta di uno dei più grandi successi della Walt Disney Pictures nonché di una delle perle del cosiddetto “rinascimento Disney”, un ideale decennio andante dal 1990 (La sirenetta) al 1998 (Tarzan) e caratterizzato da lungometraggi di grandissima qualità tanto nell’animazione quanto nelle musiche e nelle sceneggiature; cf longtake.it, Rinascimento Disney: il decennio magico dell’animazione, consultato il 2023.12.08.

3 Cf. Wikipedia, Il re leone, consultata il 2023.12.08.

4 Mi sto riferendo al celebre brano Hakuna Matata; candidato all’Oscar come Migliore Canzone, fu composto da Elton John e scritto da Tim Rice. Il titolo della canzone è un’espressione in swahili che significa letteralmente “non ci sono problemi”. Il testo, adattato in italiano da Ernesto Brancucci detto Ermavilo, suggerisce una filosofia di vita fondata su di una libertà di assoluta indifferenza. L’autonomia del singolo si regge cioè sull’aprioristico rifiuto di tradurre il male subito, da noi o da altri, in una lotta per il bene; si tratta insomma di un voltare le spalle al mondo; cf Wikipedia, Hakuna Matata (brano musicale), consultata il 2023.12.09.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it