Maestà,
star bene e star male sono esperienze proprie a ciascuno. Voi stesso avete provato la sofferenza psichica in un momento difficile della vostra vita, ma poi avete rivisto la luce. Come aveste voi stesso modo di dire, la vostra mente si aprì al giorno. E allora fu un tripudio di tutti i migliori sentimenti. E non fu una rinascita per il solo benessere interiore, ma altresì per le stesse tristi vicende familiari e politiche che vi avevano veduto protagonista.
Come vi disse Zaccaria, così è avvenuto: che servendo a Jahvè sareste stato il re di tutti i re. Da quel momento il vostro stile di governo fu tutto ed è tuttora improntato a una fine religiosità. Concepite il vostro potere come un esercizio ministeriale di una responsabilità datavi da Dio, che vi porta a cercare sempre il bene del popolo a voi affidato, garantendo la libertà dei popoli e il libero accesso di essi alle espressioni più alte dello spirito.
Concedetemi di dire che tal non era il vostro animo quando minacciavate distruzione e sterminio in tutto l’Oltrefiume e nella Città santa di Gerusalemme. Il vostro pensiero allora era tutto sanguinario, volto alla repressione più eclatante e plateale di coloro che rifiutavano di sottomettersi alla vostra innegabile supremazia militare.
Che cosa è accaduto nel mezzo? Che cosa mai ha cambiato tanto il vostro umore, traghettandovi da una visione di violenza e di morte ad una così saggia esemplarità nel delicato compito di governare intere nazioni? Da come ci racconta il resoconto operistico, fu l’affetto per vostra figlia Fenena a farvi voltar pagina, a farvi comprendere che quel Dio ch’ella aveva abbracciato non era un dio come fino ad allora lo avevate concepito. Non era un dio che dovesse manifestarsi nella vittoria di un popolo su un altro, né tantomeno un dio sottomesso all’ordinamento politico di uno Stato. Per questo la vittoria che riportaste in Palestina, Maestà, non poté né sopprimerlo, come erroneamente allora credevate, né affievolire la sua azione sovrana.
Anzi, fu proprio questa a raggiungervi e a toccare il vostro cuore, trasformando un superbo cercatore di potere in un uomo felice. E fece così come vi esprimeste magnificamente in un distico uscito dalla vostra bocca: “L’empio tiranno Ei fe’ demente; del re pentito diè pace al sen”.
Vi diede pace, reale Maestà, donandovi una nuova scienza del divino e della sua misteriosa grandezza. Quando entraste nel Tempio la prima volta, infatti, all’obiezione di Zaccaria: “Questa è di Dio la stanza“, rimaneste allibito e sorpreso, riuscendo a balbettare soltanto un “Di dio che parli?“, cioè: “Perché parli di un dio in questo frangente di guerra?”. Non sapevate ancora, Maestà, quello che più tardi avreste appreso: che Dio è tutto, e non vi è nulla che abbia senso o trovi successo al di fuori della considerazione di Lui.
Il Dio d’Israele non era un dio come quello dei Babilonesi, e di tutti gli altri popoli, un dio relegabile a una sola sfera dell’esistenza collettiva. Al contrario, Egli è, come lasciò scritto un altro interprete di questa santa religione, “il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola“, colui nel quale sono riposte le speranze dell’intero universo.
Dovete sapere, o Maestà, che già un discepolo di Cristo, il primo degli apostoli, Pietro, ed anche quel re che lo condannò poi a morte, ebbero reazioni scomposte quando l’incontro con l’automanifestazione di Dio collise con la loro pregressa concezione del divino. Addirittura Pietro, di fronte a una delle più spettacolari teofanie del Nuovo Patto, non seppe dir altro se non: “Farò qui tre capanne“. Non sapeva infatti quello che diceva. La follia, come vedete, viene incontro a tutti quando al nostro ristretto modo di pensare si presenta la proposta divina di abitarvi, di porre la sua dimora – Lui che cielo e terra non possono contenere – nell’esiguo spazio di un’anima.
Questa fu la storia della vostra conversione, Maestà. Vi chiedo scusa del troppo dilungarmi su affari così delicati, ma ritengo sia giusto sempre ringraziare la divina clemenza di aver operato in voi sì grandi prodigi, sperando che ciò accada, e ogni giorno, a me, e a chi ha avuto l’ardire di leggere una lettera non rivolta a lui.
Vostro aff.mo, Stefano l’Italiano,
servo del Dio altissimo