Il volto del nemico

Tutte le persone di buona volontà, ed in special modo i cristiani, dovrebbero, almeno saltuariamente, chiedersi se stanno davvero compiendo tutto il bene ragionevolmente alla loro portata. Non si tratta necessariamente d’interrogarci sulla nostra partecipazione a qualche grande causa o sulla possibilità di dare la paternità ad una memorabile impresa; una simile domanda implica semplicemente chiedersi con onestà se stiamo davvero combattendo contro il male, piccolo o grande che sia, che ammorba la nostra esistenza.

Come ho detto, il cristiano dovrebbe analizzare la propria condotta più frequentemente e con maggiore attenzione di ogni altro e questo in virtù di quel comandamento dell’amore (cf. Mc 12, 31-34) verso il quale s’orienta tanto l’esempio quanto gli insegnamenti di Gesù. Anche se, ovviamente, l’evangelico “Amerai il prossimo come te stesso” implica prima di tutto una ricerca attiva del bene dei fratelli, secondo le forze e le occasioni che ci vengono date, è indubbio che tale imperativo concretizzi una non piccola parte delle sue implicazioni anche nella lotta contro i malvagi. Mi viene in mente in proposito un celebre aforisma, attribuito al filosofo e statista irlandese Edmund Burke (1729-1797), che esprime perfettamente la connessione fra una vita fondata sulla carità e la lotta contro il male; esso recita così: «Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinunzino all’azione».1

Non penso vi siano difficoltà nell’ammettere che il trionfo del male in una qualsiasi situazione sia fonte di sofferenza per coloro che lo subiscono e, spiritualmente parlando, anche per coloro che lo compiono. Ecco che quindi non credo possa definirsi realmente discepolo di Cristo qualcuno che, pur avendone la possibilità, decida di rinunziare alla lotta lasciando campo libero al male. Potremmo arrischiarci a dire che la vocazione del cristiano all’impegno sociale si fonda proprio su questa incompatibilità di fondo fra la necessità di amare il prossimo come fece Cristo e la disponibilità a tollerare le ingiurie del male.

Naturalmente tale imperativo non va applicato semplicisticamente ad ogni situazione. Come ogni direttiva morale generale, anche questa necessita di una ragionata declinazione al contesto concreto prima di essere applicata. Ad esempio, è possibile che alcuni mali debbano essere tollerati momentaneamente proprio per dare alla lotta una dimensione più vasta della semplice azione puntuale. In ogni caso non cambia il fatto che il male debba sempre essere visto per quello che è: non uno sgradevole fenomeno naturale né tantomeno la necessaria zona d’ombra del bene ma, al contrario, qualcosa che non dovrebbe esistere e che, un giorno, non esisterà più.

Tuttavia, dobbiamo ammetterlo, parlare semplicemente del male è abbastanza generico, forse troppo per guidare le nostre azioni ed iniziative. Inutile dire infatti che nella vita di tutti i giorni non ci troviamo a lottare contro concetti astratti o mere idee, bensì contro le persone e le loro azioni tremendamente concrete. La lotta alla quale siamo chiamati, prima che contro un male generico, è rivolta ai malvagi ed ai sistemi corrotti cui danno vita. Badate bene però che non sto parlando solo delle persone che ci circondano, come se lo scontro ci vedesse sempre giusti in mezzo agli empi, ma anche e soprattutto di ciò che cresce e s’imputridisce nel nostro animo. Quegli atti malvagi attraverso i quali riconosciamo il nostro nemico sono presenti anche nella nostra vita, spesso ben celati dietro all’apparente innocenza di vecchie abitudini, tanto che nessuna vera reazione può darsi se non ci si mette in discussione in prima persona.

A questo punto tuttavia dovrebbe in tutti noi sorgere una domanda: come si riconosce una persona malvagia? Come si possono cioè superare quelle contrapposizioni partitiche e culturali attraverso le quali la nostra mente cerca di semplificare la realtà? Dobbiamo sempre ricordare che, se non sapremo rispondere, finiremo per chiamare malvagio semplicemente colui che percepiamo, per qualche ragione, estraneo al contesto che ci è più familiare.

Sembra una domanda facile ma penso che anche per il cristiano più devoto sia invece una questione tutt’altro che scontata. Basta infatti abbandonare anche per poco la sicurezza delle formule preconfezionate per rendersi conto che la definizione malvagio contiene numerosi ed insidiosi elementi di soggettività. Ci si accorge cioè che lottare contro una persona, per quanto cattiva sia, implica danneggiarla in una qualche misura; ecco che quindi se limitiamo la nostra capacità di riconoscere il male al piano soggettivo, l’atto stesso della lotta ci rende, in qualche modo, i malvagi di colui che combattiamo. A questo punto saremmo tentati di ritornare alle definizioni oggettive e socialmente diffuse che avevamo prudentemente abbandonato, ripetendo a noi stessi che forse è meglio la loro parzialità del totale relativismo che abbiamo appena intravisto. Tuttavia simili posizioni mostrano anche senza volerlo la propria fragilità, specie al cristiano; egli infatti, proprio in virtù della sua fede, dovrebbe più degli altri riconoscere il bene che il Signore coltiva in ogni persona. Scorgendo allora questi elementi, diventa impossibile accettare definizioni superficiali o collettive.

Il dilemma della spia

La questione non è certo banale, tanto che potete immaginare la mia sorpresa quando ne ho trovato un interessante sviluppo sulle labbra di un personaggio che solitamente associamo a tutt’altre problematiche. Sto parlando della spia più famosa del mondo, l’agente segreto britannico James Bond, lo 007 creato dalla geniale penna di Ian Fleming e divenuto icona mondiale grazie al talento di tanti ottimi attori e registi.

Di recente ho letto il primo romanzo dell’autore inglese, Casino Royale,2 edito per la prima volta nel 1953 e fatto oggetto di ben due trasposizioni cinematografiche, una nel 1967 ed un’altra nel 2006.3 La trama è abbastanza semplice e credo ampiamente nota: l’agente sovietico Le Chiffre, incaricato di finanziare e fomentare in segreto i movimenti comunisti della Francia degli anni ’50, s’innamora della bella vita ed utilizza l’ampio budget fornitogli dal regime per investire in un’attività sicura e redditizia che gli consentirà di svolgere il suo compito senza rinunciare ai lussi occidentali. Tuttavia un improvviso ed imprevedibile mutamento della sorte lo lascia sul lastrico e, temendo di essere eliminato dal KGB, decide di utilizzare ciò che gli resta per riformare la sua fortuna grazie al gioco d’azzardo. L’MI6, venuto a sapere della fortuita situazione, decide d’impedire a Le Chiffre di ricostruire il suo patrimonio, così da far scoppiare uno scandalo ai danni del blocco sovietico. Per far questo, incaricano il loro migliore giocatore d’azzardo, l’agente doppio 0 James Bond.

Lascio alla vostra curiosità, di lettori o spettatori, il compito di scoprire come si sviluppa questa intrigante premessa. Tutto ciò che m’interessa dirvi è che, a circa due terzi del romanzo, la nostra spia preferita si trova in ospedale dopo essere sfuggito, per pura fortuna a dire il vero, ad una morte orribile per mano di Le Chiffre. Vittorioso ma turbato dall’esperienza, Bond, dimostrando una profondità di solito estranea alla sua controparte cinematografica, inizia un lungo dialogo con l’amico ed agente segreto francese Mathis: il tema è appunto la natura del male.4

Egli inizia affermando l’insufficienza, per definire qualcuno malvagio, tanto della prospettiva puramente soggettiva quanto di quella fornita dai grandi princìpi. In sostanza, da un lato Bond riconosce che i trascorsi personali con Le Chiffre non bastano ad identificarlo oggettivamente come una persona malvagia, legati come sono ad una sola prospettiva;5 d’altro canto, l’umanità scorta nell’antagonista poco prima di morire, unita alla crudezza delle precedenti azioni dello stesso 007, rendono ogni identificazione fondata sull’appartenenza politica o nazionale del tutto insufficiente.6

Ciò che Bond pare cercare in queste pagine non è tanto una definizione, speculativa o esperienziale, di malvagio, quanto piuttosto una sua descrizione oggettiva, qualcosa che possa fungere da criterio e che gli permetta di riconoscere senza generalizzazioni o eccessivi soggettivismi chi sia malvagio e quindi degno di essere combattuto. Interessante in proposito è il fatto che l’agente segreto usi la Sacra Scrittura per spiegare la natura della questione:

«C’è un Libro Buono sul bene e su come essere buoni e così via, ma non c’è un Libro Malvagio sul male e su come essere cattivi. Il Diavolo non ha profeti a scrivere i suoi Dieci Comandamenti e non ha un gruppo di autori a scrivere la sua biografia. La sua causa è andata avanti completamente per inerzia. Non sappiamo nulla su di lui se non una serie di favole dai nostri genitori e maestri di scuola. Lui non ha un libro dal quale possiamo imparare la natura del male in tutte le sue forme, con parabole su persone malvagie, proverbi a proposito della gente cattiva, tradizioni popolari su di loro. Tutto quello che abbiamo è l’esempio di persone che sono meno buone, o la nostra stessa intuizione» (Trad. nostra).

Ciò che Bond qui afferma è che mentre Dio, attraverso la Rivelazione, ha fornito un criterio oggettivo per riconoscere il bene, utile forse anche a chi non vive la fede, il male d’altro canto pare essere più difficile da riconoscere. Infatti siamo costretti a scovarne le tracce non in qualcosa che l’incarni e lo riveli appieno, bensì in creature che sempre lo mescolano con il bene. Qui, forse senza saperlo, 007 ha colto la natura stessa del male, quell’elemento sostanziale che rende per lui impossibile una qualunque forma di rivelazione: esso non è altro che privazione del bene e, in quanto tale, non può esistere autonomamente. Sarebbe come, per esempio, cercare una definizione di ombra che non implichi la presenza della luce. Comprendiamo senza difficoltà quindi il dilemma dell’agente segreto: a livello etico combattere il male implica, alla fine, lottare fino alla morte contro persone che, pur forse in differente misura, condividono la nostra stessa bontà e le nostre stesse ombre; cosa quindi ci distingue da loro?

La questione è senza dubbio interessante e, specie quando lottare contro i malvagi può implicare ucciderli, di un’importanza capitale. Si tratta infatti di trovare il giusto sentiero fra due estremi altrettanto pericolosi: da un lato l’indifferenza, che finisce per renderci utili mostri, dall’altro la neutralità, che ci porta a considerare ogni male, tanto quello del carnefice quanto quello della vittima, sullo stesso livello.

Fino in Cima

L’inaspettata soluzione al dilemma giunge dalle labbra di Mathis, un personaggio che in queste poche pagine sa mutare la sua naturale simpatia in un’edificante saggezza paterna:

«Ora a proposito del tuo piccolo problema, questa questione di non riconoscere gli uomini buoni dai cattivi, gli antagonisti dagli eroi, e così via. È naturalmente un problema difficile in astratto. Il segreto giace nell’esperienza personale, sia che tu sia cinese o inglese. […] Ammetti che Le Chiffre ti ha fatto del male a livello personale e che lo uccideresti se ti apparisse di fronte ora? Bene, quando sarai tornato a Londra, scoprirai che ci sono altri Le Chiffre che cercano di distruggere te, i tuoi amici e il tuo paese. […] E ora che hai visto un uomo realmente malvagio, saprai quanto possono essere malvagi e li inseguirai e li distruggerai in modo da proteggere te stesso e le persone che ami. […] E quando t’innamorerai e avrai un’amante o una moglie e figli cui badare, ti sembrerà tutto più facile. […] Circondati di esseri umani, mio caro James. È più facile combattere per loro che per dei principi» (Trad. nostra).8

Il discorso di Mathis muta la prospettiva adottata da Bond: invece di percorrere un ragionamento deduttivo, che da una definizione oggettiva ed universale scenda a riconoscere i singoli malvagi, l’agente francese suggerisce un cammino induttivo. Poiché, com’è noto, tutti amano se stessi nel modo più naturale, il punto di partenza per riconoscere un malvagio è identificare qualcuno che sia stato nostro personale antagonista. Non sarà tuttavia sufficiente considerare malvagie tutte le persone a lui simili; bisognerà invece isolare le sue azioni peggiori e semplicemente impedire che altri le commettano contro coloro che amiamo. Il graduale ampiamento della prospettiva, da quella semplicemente personale a quella nazionale, suggerisce anche un approfondimento della comprensione di tali azioni. Con ciò intendo dire che solo un atto realmente malvagio sarà applicabile come tale a numeri sempre più grandi di individui; in caso contrario, se si trattasse invece di un atto buono oggettivamente percepito come dannoso, il raffronto con gli altri ne rivelerebbe presto o tardi la natura.

La cosa più interessante tuttavia è la proporzione suggerita fra il numero di persone amate, nonché la profondità dei legami vissuti, e la facilità nell’individuare i malvagi. Tanto più il nostro amore esce da noi stessi e si espande verso gli altri, quanto più il male si oggettivizza, rendendo la lotta non solo possibile ma addirittura necessaria. La cosa può apparire sorprendente all’inizio ma, ad un’analisi più attenta, si rivela invece ovvia, quasi banale: se infatti è male ciò che nega e contraddice l’amore, allora quanto più un uomo si purificherà dall’amore egoistico aprendosi agli altri, tanto più la sua comprensione del male sarà altrettanto purificata dai soggettivismi e dalle conseguenti generalizzazioni.

La riflessione di Fleming si ferma qui e Bond, perlomeno in questo romanzo, non riprende più esplicitamente la tematica. Noi credenti però, alleggeriti proprio dalla nostra fede, possiamo fare un passo in più in avanti. Quell’amore del prossimo che l’autore inglese ha proposto come principio esperienziale d’individuazione del male ha il suo vertice ed il suo fondamento nell’amore verso Dio. Ciò significa che il cristiano, che in Gesù ha imparato ad amare il prossimo come lo ama l’Altissimo, avrà una comprensione dell’amore, e quindi del male, non solo più perfetta ma anche più estesa. Da un lato infatti amare Dio lo porterà a superare il confine della singola nazione, per raggiungere il traguardo di estendere la sua carità a tutti, anche ai nemici; dall’altro ciò gli consentirà di purificare a tal punto il proprio modo di amare da sviluppare una comprensione finissima anche del male stesso.

Il frutto di questa crescita è la risposta alla cristiana necessità di portare avanti la lotta. Il discepolo di Gesù, immerso nel Comandamento dell’Amore, sarà in grado di combattere coloro che ama, d’incrociare con loro le lame senza odio ma con compassione. La sua lotta sarà più forte della morte ed al tempo stesso delicata come la riprovazione di una madre; inoltre, anche quando dovrà spegnere una vita, egli non starà eliminando un malvagio ma risponderà alla muta preghiera di un cuore che chiede d’essere fermato.


1 Il testo e l’attribuzione, nonché i dati biografici dell’autore, sono presi dalla pagina Aforisma di Edmund Burke nel sito “aforismi.meglio.it”, consultato il 20.05.2023.

2 Cf Ian Fleming, Casino Royale, Vintage Books, London 2012; per l’edizione italiana cf Ian Fleming, Casino Royale (trad. M. Bocchiola), Adelphi 2012.

3 Il film del 1967, diretto da John Huston, si propone come una parodia liberamente tratta dal romanzo di Fleming; questo ne fa una pellicola non inserita nel “canone” di Bond. D’altro canto il film del 2006, diretto da Martin Campbell ed interpretato da Daniel Craig, si presenta invece come una resa abbastanza fedele del romanzo. Gli adattamenti operati sono di due tipi: da un lato l’ambientazione contemporanea ha reso necessario l’abbandono del contesto di prima Guerra Fredda scelto da Fleming; dall’altro l’ormai lunga storia cinematografica del personaggio l’aveva gradualmente allontanato dal modello proposto dall’autore in questa prima opera. La conseguenza è quindi un Bond certo più familiare per il pubblico contemporaneo ma distante dalla talvolta fine introspezione di Fleming.

4 Cf Fleming, Casino Royale, c. 20 “The Nature of Evil”, pp. 167-176.

5 Anche se non è rilevante per il discorso attuale, la definizione di “trascorsi personali” è in questo caso perlomeno riduttiva. Le Chiffre ha torturato Bond per ore colpendolo ripetutamente ai genitali; l’esperienza, arricchita dall’inquietante competenza di Fleming in materia, è nel romanzo molto più forte che nel film e, nel venire scartata come criterio, trasmette bene l’estrema serietà delle domande di Bond.

6 L’ambientazione della prima Guerra Fredda avrebbe consentito a Fleming di semplificare la questione identificando i malvagi con i comunisti sovietici. Per il 1953 una simile messa in discussione di tale concetto implica un’acutezza non comune.

7 «There’s a Good Book about goodness and how to be good and so forth, but there’s no Evil Book about evil and how to be bad. The Devil has no prophets to write his Ten Commandments and no team of authors to write his biography. His cause has gone completely by default. We know nothing about hm but a lot of fairy stories from our parents and schoolmasters. He has no book from which we can learn the nature of evil in all its forms, with parables about evil people, proverbs about evil people, folk-lore about evil people. All we have is the living example of the people who are least good, or our intuition»; cf Fleming, Casino Royale, p. 173.

8 «Now about that little problem of yours, this business of not knowing good men from bad men ad villains from heroes, and so forth. It is, of course, a difficult problem in the abstract. The secret lies in personal experience, whether you’re a Chinaman or an Englishman. […] You admit that Le Chiffre did you personal evil and that you would kill him if he appeared in front of you now? Well, when you get back to London you will find there are other Le Chiffres seeking to destroy you and your friends and your country. […] And now that you have seen a really evil man, you will now how evil they can be and you will go after them in order to protect yourself and the people you love. […] And when you fall in love and have a mistress or a wife and children to look after, it will seem all the easier. […] Surround yourself with human beings, my dear James. They are easier to fight for than principles»; cf Fleming, Casino Royale, pp. 175-176.

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fr. Giuseppe Filippini
Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it

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