Il pezzo in più

Nel cinema, nel buon cinema perlomeno, non è raro che alcuni elementi, apparentemente inseriti dal regista come mere parti del racconto, rivelino ad una più attenta occhiata un carico semantico ben superiore alle apparenze. Nulla di nuovo o di sorprendente: fa parte di quell’umana tendenza a concepire la realtà, tanto quella creata quanto quella immaginata, come stratificata, adatta ad essere esplorata da menti come le nostre. Non sarebbe forse una bizzarra ironia constatare che possediamo, nella profondità dei nostri pensieri, la chiave per una complessità che non esiste se non nei contorti recessi dell’animo umano? Per coloro quindi che non rifiutano, ma anzi accolgono, tale alto potenziale della loro “vista” spirituale, scoprire, magari durante la seconda o terza visione della pellicola, le diverse sfumature di bellezza che la compongono è un po’ come esplorare le profondità marine: ci si accosta ad una meraviglia nuova ma di cui non s’era mai davvero dubitato.

Di recente tuttavia mi è capitata un’esperienza nuova. Mi ero dato, assieme ad un amico, alla visione dell’ultimo lavoro del regista americano Jordan Peele, divenuto celebre negli ultimi anni per due pellicole di qualità da lui dirette, ossia Get Out, del 2017, ed Us, del 2019;1 il film in questione s’intitolava Nope e devo ammettere che iniziai a vederlo più per curiosità che altro. In ogni caso, al termine della visione, una domanda iniziò a rimbalzare nella mia mente, inizialmente oziosa ma gradualmente sempre più insistente: che cosa diavolo c’entrava la scimmia con il resto della vicenda?

Ora, so perfettamente che chi di voi, cari lettori, non ha visto il film non ha la minima idea di cosa io stia parlando. Preso atto che a breve vi metterò in condizione di capire, la sensazione che provai fu il fastidio di scoprire che una parte del racconto, abbastanza grande da non poter essere ignorata, non aveva alcun ruolo nella narrazione tanto che, senza comprenderne il significato recondito, appariva inutile come un dente del giudizio. Quel perfetto equilibrio di cui ho appena parlato viene da questo film serenamente spezzato: la sezione cui mi riferisco infatti pare non integrarsi al resto della storia, come una differente novella l’unica ragione della cui presenza è la segreta affinità che la lega alla narrazione principale. Questo suo essere fuori posto genera istintivamente una sensazione di fastidio, simile a quella data da un pezzo di arredamento male abbinato; tuttavia a ciò segue, perlomeno nello spettatore attento, l’indomabile necessità di trovare una risposta, di dare, per tornare a Nope, a quella scimmia il posto che merita.

A prescindere dal risultato di questa indagine, di cui vi metterò presto a parte, la mia impressione è stata di essere incappato in un espediente narrativo teso ad impedirmi di distogliere lo sguardo. Difatti, la mente umana è solitamente appagata quando, in una situazione, riesce a dare ad ogni elemento un nome ed un ruolo. Menti più brillanti e mature pretenderanno sistemazioni più precise ovviamente, ma la costante antropologica di fondo è sempre la stesa: l’horror vacui. La sola cosa che davvero ci disturba non è l’errore o la superficialità, che con serenità accettiamo, ma l’idea di aver lasciato qualcosa fuori posto, di avere una pendenza alle spalle. Ecco che quindi in un film di solito non ci facciamo scrupoli a sorvolare su determinati contenuti, purché quegli elementi deputati a trasmetterli trovino comunque un posto perlomeno sul piano meramente narrativo; quando, come in questo caso, non lo fanno, ci sentiamo spinti a tornare sull’opera, a compiere forzatamente quell’indagine più approfondita che altrimenti avremmo cercato solo se spronati dal gusto personale.

Per questa ragione, di fronte alla misteriosa scimmia di Nope, ho dall’inizio avuto la convinzione che il suo significato costituisse la chiave di volta dell’intera opera, qualcosa che il regista non poteva consentire passasse sotto silenzio.

UFO, cavalli e scimmie

Prima di andare avanti devo, come promesso, dirvi perlomeno qualcosa circa il film in questione. Nope è l’ultima opera di Jordan Peele, uscito nel 2022 ed interpretato da Daniel Kaluuya, Keke Palmer e Steven Yeun2. Potremmo classificarlo come un horror fantascientifico con alcuni elementi western ma, come per le altre due opere del regista, penso che rinchiuderlo in categorie troppo rigide sia un errore. L’opera, similmente alle più riuscite creazione di M. Night Shyamalan, trova la sua originalità non nel rielaborare i caratteri propri di un genere, bensì nel muoversi attraverso le diverse classificazioni con una libertà tanto sorprendente quanto affascinante. A fronte quindi di alcuni innegabili elementi di tensione, blandi se confrontati agli standard dell’horror contemporaneo, e dell’evidente riferimento alle più classiche storie di UFO, Nope è un’opera non da definire ma da scoprire nella sua unicità.

L’associazione, forse ardita, di Peele ad un maestro quale Shyamalan si fonda non solo sull’imprevedibilità dei loro film ma anche sul fatto che le loro storie si costruiscono attorno ad un impensabile colpo di scena. Il capovolgimento della prospettiva adottata dal pubblico che questi eventi chiave operano è talmente importante per la fruizione e l’apprezzamento dell’opera che rivelarli porterebbe il concetto di “spoiler”, già gravato da gravi implicazioni morali, a minare addirittura lo stato di Grazia del suo maligno autore. Ecco che quindi, lungi dal volermi dannare per così poco, vi parlerò del film solo il tanto che basta per dare senso alla successiva riflessione.

Nope ci pone all’interno della difficile esistenza della famiglia Haywood e del fallimentare ranch per cavalli addestrati al cinema da loro gestito. Alla morte improvvisa di Otis Haywood senior suo figlio OJ, assieme a sua sorella Emerald, cerca di portare avanti un’attività già condannata al fallimento. Mentre con dolore OJ vende un cavallo dopo l’altro a Jupe, proprietario del vicino parco a tema western Jupiter’s Claim, una sera la sua vita cambia radicalmente: nella sua proprietà vede un UFO. L’oggetto volante, accompagnato dai consueti misteriosi effetti collaterali sugli apparecchi elettronici e sugli animali, diviene per i due fratelli un’insperata occasione: se riuscissero a filmarlo e documentarne la presenza potrebbero scampare alla povertà e ricominciare da capo.

Se questa è la linea narrativa principale, della cui evoluzione non vi parlerò oltre, il regista, quasi da subito, ne aggiunge una secondaria attraverso il personaggio di Jupe. L’improbabile proprietario del parco a tema rivela di essere stato, nell’infanzia, una piccola rivelazione della recitazione, uno di quei bambini prodigio tanto facilmente inghiottiti da Hollywood. Neanche a dirlo, egli vive questo suo passato “glorioso” in modo quasi ossessivo, con gesti che vanno ben oltre la sana cura della memoria. All’interno del suo triste museo dei cimeli s’incastra tuttavia una vicenda inquietante, probabile fine della sua carriera. Jupe, dopo il successo cinematografico, era stato scritturato per una serie televisiva di successo dal titolo Gordy’s Home, una sorta di sitcom di fine anni ’80 con protagonista uno scimpanzè. Durante la ripresa di un episodio uno degli animali addestrati per la scena, probabilmente a causa dello stress, aggredì il cast ed i tecnici ferendo gravemente una delle attrici.

La terrificante scena, oltre a rivelare con brutalità quanto davvero sia pericoloso uno scimpanzé, viene proposta in forma di graduale flashback e ci aiuta a comprendere, attraverso sottilissimi accenni, la vera profondità del trauma subito da Jupe; egli infatti, ancora bambino, non solo assistette a tutta la scena ma vide anche l’abbattimento dell’animale.

Questo racconto non è classificabile semplicemente come l’approfondimento biografico di un personaggio. Difatti, da un lato Jupe non è una figura così importante nell’economia generale del film; dall’altro il minutaggio dedicato alla vicenda è tale da suggerire un ruolo ermeneutico ben superiore al mero approfondimento di un personaggio. Eccoci quindi tornati alla domanda iniziale: cosa c’entra la vicenda della scimmia con il resto?

L’umiltà dell’occhio

Il quesito mi è rimasto in mente per giorni finché, all’improvviso, mi è balenata la soluzione. Mi piacerebbe poter affermare con certezza assoluta che la mia risposta sia quella definitiva, oltre la quale v’è solo l’errore; tuttavia, come spesso accade quando si cerca di comprendere un contenuto non evidente, si tratta solo di una spiegazione coerente e, almeno spero, interessante che vi consegno, invitandovi a provarla quale chiave di lettura dell’opera stessa.

L’elemento cardine della triste vicenda di Gordy non è, a mio parere, l’imprevedibilità dell’animale bensì il modo con il quale noi lo guardiamo. A sostegno di tale tesi il film propone anche un’altra scena simile: OJ, sul set con uno dei suoi cavalli, perde il lavoro poiché l’animale, innervosito per lo stress da uno degli oggetti di scena, mette in pericolo una ragazza. La situazione è la medesima: un essere vivente viene visto non nella sua realtà complessa ma semplicemente come uno strumento.

Ciò di cui sto parlando è l’umana tendenza, forse accentuata nell’età della tecnica, a scorgere nella realtà che ci circonda semplicemente un mezzo per realizzare la nostra volontà. La perniciosità di prendere l’utile umano come filtro d’osservazione per il reale è ben evidenziata dagli animali, le cui vite, necessità e complessità gridano, con più forza rispetto alle altre creature, il diritto ad essere davvero viste.

Il concetto è, già così considerato, interessante; tuttavia non penso che il film voglia fermarsi ad una mera considerazione animalista. A ben vedere infatti l’intera pellicola ruota attorno all’atto di osservare ed alle sue implicazioni; come si è detto, lo scopo dei protagonisti è documentare, per denaro, l’UFO da loro avvistato e tale intento, di per sé abbastanza neutro, viene analizzato e compreso proprio nell’ottica dei fini dell’osservazione. Limitato come sono dal pericolo spoiler, non posso andare oltre; vi basti sapere che solo quando smetteranno di cercare di riprendere un’astronave aliena ed inizieranno davvero ad osservare il fenomeno, giungeranno alla verità su di esso.

Tutto questo ci suggerisce che il tema profondo dell’opera è quella strana forma di cecità che coglie l’uomo quando, invece di accogliere serenamente l’iniziale passività dell’atto dell’osservare, si pone subito come parte attiva cercando in ciò che vede un utile previamente desiderato. Il risultato è che la prospettiva sull’oggetto risulta falsata, distorta dall’elefantiaca importanza che diamo a ciò che riteniamo centrale ed al posto drammaticamente secondario che riserviamo a tutto il resto. Tornando a Gordy, chi vide nello scimpanzè solo il lato simpatico e divertente, cogliendone la possibilità di sfruttamento, relegò pericolosamente in secondo piano la ferocia, la forza e la dignità di un animale straordinariamente simile a noi.

La prospettiva sulla realtà che la pellicola suggerisce è fondata sulla virtù dell’umiltà. Non si tratta di una qualche svalutazione del soggetto osservante rispetto all’oggetto osservato, una sorta di utopica ricerca della perfetta neutralità, bensì di uno sguardo che potremmo arditamente chiamare contemplativo. Chi lo possiede sa godere di ciò che osserva senza tentare immediatamente di coglierlo, di afferrarlo; è disposto ad accogliere umilmente la passività dell’osservazione poiché ciò che lo muove non è la volontà di usare l’oggetto esperito, bensì di lasciarsi mutare da esso. Questo atteggiamento va a ribaltare il modo in cui concepiamo e viviamo la nostra signoria sul creato: non più dettata dal dominio, dallo sfruttamento, bensì dalla relazione con quelle realtà che lo spirito umano, nella sua altezza, nutre e gusta al tempo stesso.

Forse vi parrà una considerazione forzata, ma personalmente trovo questa prospettiva profondamente cristiana. Non solo per l’indubbia coerenza di questa nuova regalità con quella di Cristo, che nell’Incarnazione accolse la realtà umana nella sua interezza finendo per elevarla, ma anche per come l’umiltà dello sguardo costituisce il cuore dell’autentico rapporto con il Signore. Difatti, al di là dei comuni gesti di sottomissione e deferenza, molti credenti, forse tutti in un qualche momento della loro esistenza, tendono a considerare la realtà divina qualcosa da cui trarre un utile, una risorsa preziosa della propria esistenza cui attingere se necessario. Quando ciò accade, il nostro rapporto con Dio cessa di essere determinato dall’amore, che per sua natura nulla esclude, e finisce per radicarsi sui nostri bisogni. L’Onnipotente non viene più da noi visto come Qualcuno da conoscere, amare e da cui lasciarci cambiare, bensì come una risorsa, l’ennesimo strumento da tenere in tasca per l’occasione.

Inutile dire che tale comportamento non tocca minimamente la Perfezione di Dio; gli unici che ne ricevono danno siamo noi. Riducendo infatti l’azione del Signore nelle nostre vite ad un mero atto strumentale finiamo per rifiutare implicitamente tutta quella ricchezza che, nella vera contemplazione, ci raggiunge attraverso la delicatezza del tocco di Dio. Non credo di riuscire a spiegarmi meglio; posso solo dire che chi di voi, dopo aver pregato, ha seriamente riflettuto su frutti della sua orazione, si sarà reso conto di come la risposta dell’Onnipotente non giunge di solito meccanicamente, ma attraverso le vie misteriose di una Potenza che si esprime al meglio nelle contorte radici della nostra fragilità.

In conclusione, l’invito che rivolgo a voi come a me stesso è quello di costruire, lentamente e con pazienza, questa sottile forma di contemplazione quotidiana, di nutrire il nostro sguardo bramoso con la pazienza di chi è disposto a lasciarsi prima di tutto guardare.

1 Cfr. voce Jordan Peele (english), in “Wikipedia”, consultata il 22.01.2023.

2 Cf voce Nope: film (english), in “Wikipedia”, consultata il 22.01.2023.

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fr. Giuseppe Filippini
Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it

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