Quantum potes, tantum aude: quia maior omni laude, nec laudare sufficis
Osa tanto quanto puoi, perché è maggiore di ogni lode e non lo loderai mai a sufficienza! Così ci esorta la sequenza, ossia quel testo in rima collocato tra la seconda lettura e l’alleluia, nella solennità del Corpus Domini.
La sequenza, che raramente si proclama o canta per intero, fu composta nei primi anni sessanta del Duecento nientemeno che da san Tommaso d’Aquino, su commissione del papa di allora Urbano IV.
Quest’ultimo infatti, con la bolla Transiturus del 1264, volle estendere alla Chiesa universale la festa del Corpus Domini, che si celebrava già da una ventina d’anni presso la diocesi belga di Liegi, grazie anche all’impulso delle rivelazioni private della santa mistica Giuliana di Cornillon.
Ben presto, attorno al 1277, dalle parti di Colonia cominciò a prendere piede l’elemento che maggiormente caratterizza questa bella solennità: la processione con l’Eucaristia, il Corpo del Signore appunto.
«Nella festa del Corpus Domini, tutta la comunità si sente chiamata a questo compito: devi osare tutto ciò che puoi! Sento ancora il profumo che emanava dai tappeti di fiori e dalle fresche betulle; ne facevano parte gli addobbi di tutte le case, le bandiere, i canti; sento ancora la musica della banda del paese […]: la permanente presenza di Cristo veniva celebrata in quel giorno, per così dire, come la visita di un capo di Stato che non trascura nemmeno il più piccolo villaggio»1.
Così scrive Benedetto XVI ricordando gli anni della sua giovinezza in Baviera.
Anche di san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, si tramanda si desse un gran daffare per questa festa da lui amatissima; è rimasto nella storia l’ampliamento che fece fare del portale della modesta chiesa di Ars per potervi far passare il baldacchino donato dal conte del luogo per scortare l’Eucaristia. Stando ai testimoni dell’epoca, nemmeno per la visita di un imperatore vi sarebbe stato tanto fermento in paese. Scampanii, musiche, spari a salve, altari allestiti lungo le vie per impartire su tutto il territorio parrocchiale le benedizioni eucaristiche; ma quel che più conta: confessioni, comunioni e un grandissimo concorso di popolo da tutta la regione, che rispondeva con entusiasmo all’immenso zelo del santo parroco.
Persino l’anno prima di morire (il 1858), settantaduenne e assai infermo, il Curato Vianney volle portare egli stesso per le vie della parrocchia il pesante ostensorio col Signore. Ai fedeli che lo vedevano oscillare pericolosamente, grondando sudore sotto i pesanti paramenti, egli rispondeva: «Non temete! Non faccio alcuna fatica, alla fin fine è Lui che porta me!»2.
Durante e dopo l’ultimo Concilio ecumenico, il Vaticano II (1962-65), ci si pose la domanda se avesse ancora senso, nella Chiesa di oggi, una festa del genere. Non basta il Giovedì Santo a celebrare solennemente ogni anno l’istituzione della santissima Eucaristia? E poi, non si rischia di scivolare in un trionfalismo tutto esteriore, con una festa quale quella del Corpus Domini?
È degno di nota il fatto che nel grande manuale di liturgia scritto negli anni 1963-65 sotto il coordinamento di Aimé Georges Martimort non si accenni se non velatamente (relegandolo tra le devozioni eucaristiche) al Corpus Domini. Oggi, inoltre, nell’annuncio della data di Pasqua che viene proclamato durante la messa dell’Epifania, del Corpus Domini non si fa menzione alcuna, a differenza di tante altre feste nominate esplicitamente.
Cerchiamo allora di penetrare, per quanto possibile, il senso di questa solennità, per viverla al meglio: scorgiamo in essa la gioia che celebra la vittoria del Signore, la gioia che la sua continua presenza sacramentale fra noi non cessa di suscitare in noi, la gioia di essere il popolo di cui si può dire: «Quale nazione ha il suo Dio così vicino a sé?»3. Il nostro Dio ha voluto essere solidale con noi in tutto fuorché nel peccato, ha voluto da vero uomo stancarsi e faticare per le strade della Palestina di duemila anni fa, e non cessa di camminare sulle strade del nostro mondo, a incrociare le nostre vite. Gli siamo cari, immensamente cari: Egli ha dato tutto se stesso per noi, per riscattarci dal dominio del peccato e della morte.
Se non si festeggia grandemente per questo immenso dono, di che cos’altro ci si potrà rallegrare in questa vita?
Presso gli antichi Romani, i generali vittoriosi tornavano in patria celebrando il triumphus, il corteo trionfale. Cristo ha vinto la battaglia decisiva, ha riportato la vittoria definitiva: celebriamo ogni anno il suo supremo trionfo, del quale siamo caldamente invitati a partecipare anche noi!
È bello poter prolungare la gioia pasquale oltre il Triduo Santo, oltre lo stesso Tempo Pasquale (che si compie a Pentecoste): è bello ricordarci con un segno eloquente, come la processione con il Santissimo, che la vittoria di Cristo abbraccia tutto e tutti: tutti, in qualunque situazione, anche la più sventurata, possiamo godere della vita nuova che sgorga dalla risurrezione del Signore.
Questa festa ci ricorda la grande verità che san Tommaso racchiuse in un verso della sequenza:
Nec sumptus consumitur, né assunto si consuma. Ricevendo l’ostia consacrata, col consumarla non esauriamo Cristo, Amore infinito che non si consuma mai, non finisce mai.
Nell’Eucaristia, Cristo si fa nostro cibo e nostra bevanda, perché noi, assimilandolo, siamo sempre più assimilati a Lui; Egli davvero cammina con noi ogni giorno, non c’è angolo della terra né anfratto della storia, fosse anche il più disperato e squallido, ove non arrivi la carezza dolcissima e invincibile di Dio.
1 Ratzinger J., Opera omnia. Teologia della liturgia, ed. it. Caruana E., Azzaro P., Stampa I. (a cura di), LEV, Città del Vaticano 2010, pp. 560 ss.
L’intero articolo è largamente debitore di questa raccolta.
2 Si veda l’accurata biografia del Curato d’Ars di Trochu F., oggi circolante in varie edizioni, specialmente la parte relativa alla grande sensibilità eucaristica del Vianney.
3 Cfr. Dt 4,7.