Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia.
La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora;
ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza,
per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore;
ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà
e nessuno potrà togliervi la vostra gioia.
(Gv 16,20-22)

Lui non ha paura; non ha paura di stringere tra le mani il Crocifisso: la limpidezza della sua innocenza di bimbo è commovente e forse questa è l’immagine pasquale più bella che abbia visto in questi giorni strani, faticosi, pieni di angoscia. Tutti, in modo diverso, hanno paura. Ci accomuna un’amara percezione d’incertezza, la paura della precarietà, della sofferenza, del dolore e della morte che potrebbero improvvisamente irrompere tra i solidi e calorosi recinti delle mura di casa a portare scompiglio e sconforto, com’è avvenuto in tante, forse troppe situazioni.

Tutto questo, ci rende consapevoli di essere tutti partecipi di una medesima condizione che varca però la contingenza dei nostri legami umani e temporali, aprendoci ad una comunione profonda con un gruppo di persone, circa Undici, con cui abbiamo la fortuna di condividere una Pasqua forse non troppo atipica. Se anche quest’anno, come ogni anno da più di duemila anni, possiamo celebrare i Misteri della nostra Salvezza – sebbene lontani, divisi, ognuno a casa sua – è proprio grazie a quelle Undici persone, all’annuncio di gioia che è scaturito dal loro cuore, un cuore che si è trovato sopraffatto dalla paura proprio durante quella Pasqua.

Forse perché ce lo diciamo sempre in modo molto distratto e quasi per inciso, non siamo abituati a pensare che in realtà proprio gli Apostoli non hanno vissuto fino in fondo ciò che poi ci hanno annunciato: potremmo dire che in effetti dalla Cena del Giovedì Santo in poi, solo San Giovanni è stato testimone della Passione e Morte di Gesù. Tutti gli altri hanno avuto paura del Crocifisso, e chi tra noi non ne ha! Quegli stessi sentimenti che ora smarriscono noi sono stati la causa della fragilità più grande che abbia coinvolto gli amici più intimi del Signore. Chiusi in casa per paura di vedere il Maestro appeso a delle assi di legno; una fine terribile che temevano di condividere ed in ogni modo hanno cercato di evitare in quel momento. Non gli restava altro che piangere la morte di quello che avevano creduto il Salvatore, chiusi in un lutto e un dolore schiaccianti, tanto forti da appiattire le stesse parole che poche ore prima avevano sentito durante quell’ultimo Banchetto.

In nessun altro luogo del Vangelo Gesù parla forse così apertamente della paura e del dolore. Non dà una risposta ben argomentata in grado di farci comprendere nel pieno delle nostre facoltà questi aspetti dell’esistenza che rimarranno pur sempre un mistero ma decide, come sempre, di spiegarlo ai suoi amici accostandoli ad un’altra esperienza, forse la più bella della nostra umanità, il parto di una madre: ciò che resta dopo le doglie è la stessa vita che esisteva prima nascosta e che ora si tinge di occhi, labbra, e piccoli arti rossi, accesi come il pianto del bimbo che grida tutta la sua vitalità. E poi la promessa, la più bella, quella che non conosce tramonto ma solo albe nuove ed eterne: “vi vedrò di nuovo”. È stata questa la condizione necessaria: la paura, il dolore e il pianto che non abbandonavano gli Apostoli. Nessun rimprovero, nessun rammarico, nessun castigo: è paradossale ma Dio sceglie volentieri i terreni sterili delle nostre umane fragilità per preparare l’incontro più bello, quello che apre definitivamente i nostri occhi e il nostro cuore a Lui. E così Gesù mantiene la promessa e si mostra agli Apostoli. Si mostra nella sua carne piagata e rifiorita e in questa dolcissima concretezza la loro paura è divenuta il germoglio di coraggio che ha posto tra le nostre mani il Crocifisso, tanto temuto in quel Venerdì, quale unica icona eloquente di vita e speranza.

È vero, anche noi quando ne scrutiamo profondamente le piaghe e il volto segnato dal dolore, ritrovandoci probabilmente alcuni di quei segni addosso, possiamo correre il rischio di trasformarlo in un mistero inaccettabile: il sibilante fruscio dei nostri pensieri finisce per assordarci e farcelo fraintendere radicalmente. L’unica via per comprenderlo e comprenderci rimane forse quella del mio piccolo amico nella foto: tenerlo in mano senza troppe pretese, per cercare di riascoltare dalle sue labbra quelle parole, l’augurio di Pasqua più bello: “vi vedrò di nuovo”.

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fr. Giuseppe Fracci
Sono nato in un piccolo paese della Provincia di Cagliari nel 1992 e i miei tratti fortemente mediterranei mi caratterizzano e annoverano nel numero del popolo sardo inconfondibilmente, anche se qualcuno ogni tanto mi scambia per sudamericano! Ho lasciato nel 2011 i bei lidi color smeraldo della mia terra, trasferendomi a Milano per studiare Lettere classiche all’Università Cattolica. Potreste portami in qualunque città del mondo ma in ogni caso, sappiate che vi direi ostinatamente: “Milàn l’è semper Milàn”. Tra i Navigli e Brera ho trovato la Vita ma non nei locali di Parco Sempione bensì all’ombra delle magnolie bianche del Chiostro di Santa Maria delle Grazie. Lì, Qualcuno mi ha sussurrato ripetutamente: “va’, e annuncia ai miei fratelli che sono risorto!”. Alla fine ho ceduto e sono diventato bianco anche io… solo nell’abito, la carnagione è sempre la stessa.

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