La Quaresima: periodi supplementari concessi a chi è tardo a convertirsi, cioè a tutti. Esploriamo la bellezza della Sposa, la bellezza della Chiesa, Sposa di Cristo. Sulla sua veste e sul suo corpo, numerose sono le meraviglie profumate e stupefacenti. Tra di esse, una gemma preziosa è la ricchezza della liturgia ambrosiana, nutrita dal padre Ambrogio ma anche dalla sapienza cristiana anonima di secoli. Nutrita soprattutto dallo Spirito Santo, che pervadendo la Chiesa nella sua identità, la pervade anche in tutta la sua estensione, generando qua e là emersioni di floreale malìa.
Già ai tempi di Ambrogio, la liturgia dalle misteriose remote origini apostoliche ed elleniche, la liturgia dei santi padri Anàtalo, Mìrocle e altri, comprende una quasi gerosolimitana attenzione alla mistagogia battesimale orientata alla sacra esperienza della Pasqua. In Quaresima dunque, come annota Ambrogio stesso, già allora si leggevano la Legge e i Profeti, concentrandosi, a quanto pare, soprattutto sulla vicenda emblematica dei patriarchi e sullo spirito di arcana attesa di un inimmaginabile regno in cui la chiamata di Israele trovasse il suo purificante trionfo tramite la sottomissione delle oscure ambiguità della storia.
Genesi, quindi, soprattutto, e profeti in abbondanza, anche i minori, così carichi di desiderio di rinnovamento e così inclementi nell’accusare il presente di tutta la sua ambiguità. La morale sembra questa: concentriamoci su vicende molto molto umane, in cui, con estrema semplicità, si presenta all’orizzonte l’esperienza del divino, del tremendo, del sacro, che, umanamente, ci chiede di mettere in discussione il tran-tran della nostra vita nomade, patriarcale e pastorizia, per aprirci alle dimensioni della fede, della fratellanza universale, della misericordia.
Un tempo, però, allo stesso tempo, di prova, di sabato santo vissuto in tutta la sua profondità e dilatazione umana, non come una sporadica od occasionale occasione di commozione, ma come una consapevolezza di nullità e di assoluto, di relazione e di affidamento, di disperazione e di promessa incomparabile. Siamo uomini, siamo polvere, non siamo dèi. È solo in questa drammatica constatazione che fa capolino il sorriso del Dio amico degli uomini, per divinizzarli oltre ogni immaginario religioso umanamente concepibile. Solo così, solo condividendo il grido di angoscia del Cristo sulla croce, che in realtà non è altro che il nostro grido, a noi così fastidioso ma a Dio così palese, possiamo superare le barriere del tempo e dello spazio per divenire “corpi d’amore”1.
Quaresima, quindi, o giorno dei morti? Dei morti non come altri da noi, non come esteriorizzazione della morte, ma come un “portare sempre e dovunque la morte di Gesù, perché risplenda in noi anche la sua vita immortale”2. Un vivere il “cotidie mori”3, la limitatezza della nostra creaturalità, della nostra frustrata vocazione alla sopra-natura, della nostra miseria. Un vivere e accettare di essere nella tomba con Cristo, per poi scoprire che questa è l’esclusiva occasione per avere accanto a sé “Dio in un corpo”4, l’Assoluto fatto presenza, intimità, silenzio onnipresente e fedele. Una Quaresima come giorno dei morti che non fa paura, ma tenerezza, comunità, socialità. Come uno scaldarsi durante l’inverno cogliendo l’occasione di risentirsi fratelli.
Non tanto, perciò, tempi per i lenti, ma legumi come quelli così concreti di Giacobbe ed Esaù, un piatto di lenticchie per riavvicinarsi e sentire il conforto della solidarietà, la gioia di sentirsi sotto un unico, candido sguardo severo e solenne, benevolo e paternale. I tempi dei profeti, i “mala tempora”5 da loro denunciati, diventano invece serena attesa, mentale considerazione della bellezza del mondo futuro. Come entrare in un negozio e vedersi offrire un rovente piatto di tempia di maiale coi ceci, come era in uso nella vecchia Milano.
1 Espressione ispirata all’opera “Corpo d’amore. Un incontro con Gesù” di A. Merini.
2 Cfr. 2Cor 4,10.
3 Lucio Anneo Seneca, “Epistulae morales ad Lucilium”, I, I, 2; cfr. III, XXIV, 20; cfr. III, LVIII, 23.
4 Cfr. Eb 10,5-7; Col 2,8-9.
5 Dal modo di dire “mala tempora currunt”, usato da chi stigmatizza i mali del presente, come il Cicerone delle Catilinarie.