Il genio e il bambolone
Se quel bizzarro biografo dei beati, quale fu Louis de Wohl, ha avuto anche un solo briciolo di ragione, gli sarà venuto un capogiro al medioevale magister Pignatelli nel sentirsi ridire tutta la sua forbita lezione di un’ora in meno di un quarto d’ora, e meglio e per giunta da un suo corpulento studente1! È avvenuto, non è avvenuto? Il più antico biografo di San Tommaso d’Aquino (1224 – 1274) riporta alcuni episodi molto affini a questo e non meno gustosi. In ogni caso è paradigmatico, come fu paradigmatica la reazione dell’altro maestro dello studium napoletano, in cui il nostro Santo studiò tra il ’39 e il ’44. Parlo di Pietro d’Irlanda, che l’Aquinate tenne sempre di gran conto nel risolvere alcune spinose questioni sulla natura dell’intelligenza umana. Ebbene, «Pignatelli riferì» le prodezze argomentative dello studente all’illustre magister Pietro che «spalancò gl’occhi: “Quel bambolone? D’Aquino? Non è possibile” “Perché bambolone?” “Sta lì con gl’occhi fissi, non chiede mai niente, non prende mai appunti” “Anche io ci sono cascato. Ma provate a farlo parlare, vedrete che cosa succede”»2.
Una bella sfida, se non altro perché moltissimi pensatori odierni avrebbero bisogno di accoglierla. In effetti, San Tommaso, ora come non mai, corre il rischio di essere messo da parte: i pastori non lo considerano, perché dicono che è roba da tecnici, i tecnici dicono che è roba del passato. E il passato? Il passato ride. E quelli che serbano ancora negl’otri della mente qualche oncia di buon senso ridono con lui, perché nella storia, chi vuole dimenticarsi della storia, assai di rado fa una bella fine. Ma questo lo sa solo chi se lo ricorda.
Il senso della storia
Del resto, quella cristiana è irriducibile ad una mera e dotta stagionatura della cronaca che, superati tot anni, tac, compare magicamente sui manuali. Qui l’aggettivo cristiana dice ben più di un mascherato genitivo oggettivo, quasi fosse la storia dei cristiani, quella che ha per oggetto i cristiani. È il messaggio vivo del Cristo Risorto che assume il tempo come mezzo di propagazione, come un conduttore, un po’ come la luce si diffonde nell’aria o l’energia elettrica trascorre rapida e scintillante lungo trecce di rame. Così, nella fabulosa ipotesi che un centimetro di cavo dicesse al centimetro precedente: “Mah, io con te non c’entro nulla”, il risultato sarebbe l’esclusione di suddetto centimetro dall’impulso elettrico originario. Ergo? La continuità fra me e il mio passato è essenziale perché Cristo sia in contatto con me, essendo venuto nel mondo nel passato.
È la perfezione del precetto: ama il prossimo tuo come te stesso, che non vale solo per coloro che condividono il nostro tempo, ma attraversa i tempi, dicendo la sovranità di Cristo sulla storia: colui che ama coloro che furono e li onora come padri del proprio presente (IV comandamento), diviene loro prossimo. Se li amiamo come noi stessi, anche noi diveniamo come loro, prossimi a ciò cui erano prossimi. E come loro furono in contatto col Cristo che li ha preceduti, così noi entriamo in contatto con Cristo, attraverso di loro: «Infatti, chiunque ama ha come in sé la cosa amata […]. L’amore ha poi la proprietà di assimilare colui che ama all’oggetto di tale amore»3. Il precetto della carità trasversale ai tempi ha un nome: Tradizione. Ne segue, con buona pace di alcuni, che chi osteggia la Tradizione, scarseggia di Carità. Perché la Tradizione cristiana non è solo un atto prezioso di tutti coloro che hanno tramandato, ma anche di chi riceve e non sciupa quanto ha ricevuto.
Il maestro Tommaso
Dico Tradizione con la T maiuscola, perché fa parte della carità anche la correzione fraterna, di modo che fraternamente e senza disprezzo siano riprovate quelle tradizioni che cozzano con quella indicata dalla Chiesa. Se questa poi non vi fosse e non fosse palese, vana sarebbe la correzione. Perché solo l’esistenza della Verità di Cristo rende sensata la correzione e caritatevole chi la usa con amorevole prudenza. Ora, la Chiesa ha un plurisecolare indice puntato con ammirazione sul nostro Tommaso. In tal senso ne rilegge la figura il primo biografo, Guglielmo da Tocco, ponendo Cristo in continuità diretta con gli apostoli e gli apostoli con i dottori, fra i quali, egli dice, Tommaso fu il lume più eccelso4.
Ora, non so se sulla scia del biografo, si possa dire che l’Aquinate sia il più grande frate predicatore della storia, se si tiene conto del patriarca Domenico. Ma di certo è il santo domenicano cui il Magistero ha riconosciuto di più, chiamandolo ora Doctor Angelicus, per la finezza con cui trattò delle creature sovracelesti, ora Doctor communis (da cum e munus), cioè ricchezza di tutti, perché fonte di unità dottrinale in tutta la Chiesa (e questo nonostante i teologi, miracolo non da poco) e, in fine, Doctor humanitatis, per la densità del suo insegnamento sull’uomo.
Certamente, fu un genio precoce: dopo essere entrato appena ventenne nel nuovo Ordine dei predicatori, incominciò subito un’intensa vita di studio che lo condusse a insegnare come baccelliere prima dell’età minima allora consentita (29 anni). Non è un caso che il suo maestro, il predicatore Alberto, detto il Grande dai suoi contemporanei, proferì queste parole: «Frate Tommaso, tu sembri rivestire non tanto il ruolo di baccelliere, quanto invece quello di maestro»5. È un’affermazione molto forte, se è il tuo maestro a porla, cosa che, in effetti, mostra la profondissima umiltà di Sant’Alberto di Colonia. Questa è una delle eredità più splendide del pensatore tedesco: se ci vuole una grande umiltà per essere discepoli, ce ne vuole una ancora maggiore per divenire maestri. Infatti, siccome chi insegna, dona il frutto della sua sapienza, rischia di dimenticare di averla anche lui ricevuta in dono, di non esserne la sorgente. E un grande maestro si vede dal fatto che non ha lasciato piccoli i suoi discepoli. Per questo Alberto poteva dire di Tommaso: tu sei già maestro, perché lui lo era davvero.
Ma perché ha riconosciuto questo anche in Tommaso? Nel racconto del primo biografo, viene detto che fu la capacità che l’Aquinate aveva nel distinguere: durante una lezione “aveva presentato una distinzione con la quale rispondeva esaurientemente alla questione e ai vari argomenti” postigli dall’ingegno di Alberto.
Ben prima delle dottrine filosofiche di Cartesio († 1650), il sapere orbitava attorno a chiarezza e distinzione: nel medioevo un maestro era celebrato come chiaro quando sapeva distinguere. E la luce, la chiarezza, sono sempre sintomo di verità. Il loro contrario – cioè l’ombra, le tenebre – sono sintomo di falsità. Tuttavia, non si ottenebra l’intelligenza solo con la confusione, perché figlia dell’ombra è anche l’omissione. Non diciamo forse che omettere di dire la verità a qualcuno è tenerlo all’oscuro? Se la chiarezza è indizio di verità e la parzialità tiene all’oscuro, allora la parzialità si rivela sempre un sintomo di menzogna. Per questo la verità è anche esauriente. Ora, privare qualcuno di una verità che dovrebbe sapere è privarlo della luce. Le immagini che il linguaggio ci fornisce a questo proposito sono molto forti, perché nella nostra mente la fonte della luce è il sole. Dunque, una vita senza verità è una vita senza sole. Una perpetua penombra.
L’analogia tommasiana, ovvero del sole metafisico
Ora, non è un caso che nella raffigurazione di San Tommaso sia tipico trovargli un sole sul petto. Non voglio dare l’illusione che il pensiero dell’Aquinate sia irreformabile, ugualmente esatto in ciascuna delle sue parti, completo in tutto, ma significa che è capace di costruire una prospettiva universale, in grado di includere tutto. Come? Si pensi alla sua magnifica conciliazione fra fede e ragione. La fede, nel suo senso pienamente teologale, nasce in un mondo in cui è avvenuta l’Incarnazione. Un mondo in cui Dio si è Incarnato è superiore a un mondo che solo poteva attendere la Sua Incarnazione. Così, come argutamente sintetizzò De Wohl: «Il meglio che l’antichità avesse prodotto erano i filosofi: d’accordo. Ora viviamo in un mondo superiore, nel mondo cristiano. Dunque, il nostro mondo dovrebbe includere la filosofia, cioè la cosa più perfetta del mondo inferiore: “ciò che è più alto racchiude sempre in sé la perfezione di ciò che è più basso”»6. E in un mondo post cristiano? Vale lo stesso principio, tutto ciò che questo mondo produce di perfetto, non è incompatibile con la perfezione della fede. Perché tutte le perfezioni sono sorelle, sorelle, infatti, si dicono quelle persone che hanno il medesimo padre, di modo che tutte le perfezioni hanno la medesima origine. Non c’è antagonismo nella perfezione. Perciò, sarà vera quella fede che non teme la scienza e la tecnica, ma le comprende per come sono, e vere saranno quelle scienze e quelle tecniche che non nutrono un odio contro la fede e neppure un’affettata indifferenza. Ogni sapienza, infatti, è analoga. Qui è il vero sol d’Aquino, l’analogia, in cui unità, distinzione, completezza e ordine costituiscono il metodo del suo estro e i cardini della sua chiarezza: «La ragione ‘analogica’ confronta realtà che sono in parte uguali, in parte distinte; non le separa (rispettando così la loro unità) né le con-fonde (rispettando così la loro distinzione), ma dà il suo posto a ciascuna, mantenendole insieme a diversi livelli (rispettando così il loro ordine)»7.
Solo in questa prospettiva fra fede e ragione vi è un rapporto fecondo, quasi fossero fasi distinte all’interno della medesima estensione gnoseologica8; fasi che non si escludono, però, ma che si susseguono come gradini di un’unica scala, dove ogni livello si avvale dell’altro.
Nulla è isolato, tutto è familiare. Dire che ciascuna realtà, nella sua unicità, è analoga, non significa annegare il cosmo in una vuota e ciclica ripetizione dell’identico, al contrario, tutto è affratellato da un’unica sinfonia, senza alcuna eccezione, ogni realtà, ogni cosa ed esperienza appartiene alla medesima partitura, dove la specificità di ciascuno strumento suona in modo unico la comune Armonia: quella che canta il Mistero. Un magnifico gioco: una Melodia unica per tutti gli strumenti, come ogni strumento è unico per gl’altri. Così nell’unicità di ciascuno, tutto è uno senza confusione.
Ed è per questo che, come scrisse un teologo del nostro Ordine, «quanto più ci si addentra» nel pensiero di Tommaso, «tanto più si dissolve il timore di un vuoto astrattismo: si è posti con naturalezza davanti allo splendore di realtà sublimi. Avvicinarsi a Tommaso vuol dire disporsi a pensare o, meglio, ad apprendere l’arte di un sano pensare mediante l’uso sapiente dell’intelligenza, che è la capacità di penetrare nell’essere delle cose oltre la loro immediata apparenza. Tommaso ha il pregio non solo di far risplendere la verità, ma di farla amare: un amore esigente, ma dal fascino irresistibile»9.
Per leggere le recensioni ad alcuni testi di San Tommaso:
Tommaso d´Aquino, Commento al Vangelo secondo Matteo
Tommaso d´Aquino, De principiis naturae [Pagine di filosofia]
1 Cfr. Louis de Wohl, La liberazione del gigante, trad. it. di Ervino Pocar, Aldo Martello Editore, Milano 1950, p. 78.
2 Ivi, p. 81.
3 San Tommaso d’Aquino op, Commento ai due precetti della carità in Id., Opuscoli teologico-spirituali, cur. p. Raimondo M. Sorgia op, Edizioni Paoline, Roma 1976, p. 174.
4 Cfr. p. Guglielmo da Tocco op, Storia di San Tommaso d’Aquino, c. 1, cur. Davide Riserbato, Jaca Book, Milano 2015, pp. 91-93.
5 Ivi, c. 13, p. 119.
6 Louis de Wohl, La liberazione del gigante, trad. it. di Ervino Pocar, Aldo Martello Editore, Milano 1950, p. 80.
7 P. Antonio Olmi op, The Chalcedon Paradigm and the Sapiential Realism of St Tomas Aquinas, in p. Marco Salvioli op (ed.), Tomismo creativo. Letture contemporanee del Doctor communis, esd, Bologna 2015, pp. 334-352.
8 Cfr. p. Marco Salvioli op, Verso un tomismo post-secolare, Angelicum University Press, Roma 2014, p. 57.
9 P. Attilio Carpin op, Luce di sapienza, Angelicum University Press, Roma 2014, p. 7.