Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!1
Non è forse vero che, quando la domenica volge al tramonto o una lieta ricorrenza si avvia a conclusione, un misto di malinconia e struggimento asserraglia il cuore?
Allora, per non sentire il pungolo, si può far man bassa sulle riserve caduche delle mille preoccupazioni in cui siamo impigliati quotidianamente oppure affrontare la questione: da dove viene questa acuta nostalgia? Che cosa si salverà della vita, degli affetti, di tutto l’affannarsi e il faticare dinanzi alla voracità del tempo?
Zelo per la sapienza: filosofia
Anche l’Antico Testamento, nel libro di Qohelet, pone con grande efficacia questa grossa questione:
«Ho voluto soddisfare il mio corpo con il vino, con la pretesa di dedicarmi con la mente alla sapienza e di darmi alla follia, finché non scoprissi che cosa convenga agli uomini compiere sotto il cielo, nei giorni contati della loro vita. Ho intrapreso grandi opere, ho accumulato anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Sono divenuto grande, più potente di tutti i miei predecessori in Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza.
Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c’è alcun vantaggio sotto il sole. Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?»2.
Il Qohelet è annoverato nella categoria dei testi “sapienziali”. Ed effettivamente, non è forse indice di grande sapienza porsi seriamente la questione sul senso della propria esistenza? Chi trova il senso, l’ordine complessivo della propria vita, comincia ad assaporare in tutto ciò che fa un gusto nuovo.
Il sapore dei giorni non è più lo stesso, perché essi vengono orientati ad un polo catalizzatore come tante pagliuzze di ferro cui sia messa appresso una calamita.
Non è affatto segno di debolezza o immaturità tentare di reperire un ordine complessivo tra le talvolta gordiane vicende della vita: chi non lo trova soggiace schiavo di ogni circostanza, semplicemente travolto e sopraffatto, quasi naufrago triste e annoiato.
Del resto, tutto, ma proprio tutto quel che si vive “grida” l’esigenza di un senso: anche i premi più ambiti, le gratificazioni più ardentemente bramate, le relazioni – anche amorose – più belle, ad un certo punto scoloriscono e cadono:
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
vedova è insino al fine.3
Se la nostra vita non è orientata al suo fine ultimo, essa diviene come una prolungata e ineludibile “vedovanza”. Si vive come “a metà”, perché non si capisce a cosa rimandi ogni evento, ogni cosa di questa nostra vita.
Scriveva il Petrarca nella lettera all’amico Dionigi da Borgo S. Sepolcro, significativamente intitolata Sui miei affanni:
«“E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei fiumi e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle; e trascurano se stessi”. Stupii, lo confesso; […] adirato contro me stesso per quella mia ammirazione delle cose terrene, quando da un pezzo avrei dovuto imparare anche dai filosofi pagani che niente è degno d’ammirazione fuorché l’anima, per la quale nulla è troppo grande»4.
Spero vivamente, giunto a tal punto, che sia risparmiata al lettore la tentazione di piantarmi in asso se mi azzardo a dire che dobbiamo essere tutti “filosofi”: un modo grecizzante per spronarci ad essere amici della sapienza!
Scrisse al proposito il confratello s. Tommaso d’Aquino:
«Tra tutti i compiti cui si applicano gli uomini, lo studio [nell’accezione latina originaria di “ardente zelo”] della sapienza la vince in perfezione, sublimità, utilità e godimento. In perfezione, perché nella misura in cui l’uomo si applica alla sapienza, partecipa in qualche modo alla vera beatitudine. […] In sublimità, perché tale studio avvicina l’uomo alla somiglianza con Dio, […] ed essendo la somiglianza causa di benevolenza, lo studio della sapienza è il mezzo principale che unisce a Dio con l’amicizia. […] In utilità, poiché mediante la sapienza si giunge al regno dell’immortalità. […] In godimento infine, perché “la familiarità con la sapienza non ha amarezze, né dà fastidio la sua convivenza, ma letizia e gioia” (Sap 6,21)»5.
Così intesa, in ossequio alla sua etimologia, la filosofia è tutt’altro che la disciplina dei discorsi astrusi.
Filosofia per la vita spirituale
Dunque: le questioni fondamentali della nostra vita si inquadrano nella filosofia, la quale non necessita lo studio di polverosi trattati (alcuni sì, davvero astrusi!), ma un sincero affetto per la nostra stessa vita e per tutta la realtà che ci circonda.
Tutta la realtà è un segno: anche la nostra interiorità lo è. E un segno, per esser davvero segno, deve condurre alla conoscenza di qualcos’altro da sé.
A cosa rimanda il grido che pervade tutte le cose?
Perché la sola realtà materiale non colma la segreta domanda che risorge in noi senza posa?
Perché noi siamo anche spirito: abbiamo una vita spirituale che non si esaurisce nelle nostre funzioni vitali corporee.
C’è in noi un desiderio di bene infinito che nessuna realtà né interna né esterna a noi può darci.
Come diceva Rebora, volenti o nolenti viviamo nell’imminenza di Dio, nel desiderio fortissimo e inestinguibile di Lui.
Perdonatemi, forse mi sono lasciato prendere la mano e mi sono alquanto ingarbugliato.
Mi soccorrano le parole del Signore: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?»6.
Cristo: Sapienza eterna
Cristo sapienza eterna, donaci di gustare la tua dolce amicizia, è l’incipit di un inno dell’Ufficio delle letture7, celebrazione già assegnata alle prime ore del mattino, tempo particolarmente propizio per rammentare a ciascuno di fissare lo sguardo in Cristo, re e centro di ogni cosa.
Dio infatti non è rimasto in una vaga imminenza a incombere su di noi e non ha neppure umiliato la nostra domanda di senso e di amore: è venuto fra noi, uomo come noi, perché potessimo stringere amicizia con Lui.
Vedete: stringere amicizia con la Sapienza vera, Cristo! Ecco la pienezza dell’esser filosofi: essere amici del “Termine ultimo di ogni umana attesa”, Cristo!
I beni caduchi di questo mondo potranno ben gridarci “addio” fin che vorranno, ma se stiamo aggrappati a Cristo egli non ci lascerà: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, io non lo caccerò fuori»8.
Lo confermano tutti quei santi, Curato d’Ars in primis, che pur non avendo brillato per rendimento sui banchi di scuola, brillarono e brillano della luce intramontabile di Dio, stelle sicure sul nostro cammino assieme alla Stella del mare, Maria Santissima, Sede della Sapienza.
1 C. Rebora, Sacchi a terra per gli occhi, al link http://cinquepassi.org/antologia/sacchi-terra-gli-occhi-clemente-rebora/, consultato il 30/12/2019.
2 Qo 2,3-4.8.11.22.
3 G. Leopardi, Il tramonto della luna, vv. 63-66 (facilmente reperibile anche sul web).
4 F. Petrarca Familiarum rerum libri IV, I, qui secondo la versione contenuta in Prose a cura di G. Martellotti e vv., Riccardo Ricciardi Editore MILANO 1955. In questo stralcio Petrarca esordisce citando S. Agostino: Confessioni X, 8,15.
5 T. d’Aquino, Summa contra gentiles I-II, p. 61 ss., trad. it. T. S. Centi, UTET 1975.
6 Lc 9,25.
7 Cfr. Liturgia delle ore secondo il rito romano, vol III, p. 1105, LEV, Roma 1989.
8 Gv 6,37.