L’uomo e la reliquia
Chissà se ancora i visitatori rapiti dalla bellezza dell’Arca marmorea di San Domenico, dalla reliquia maestosa e gugliata, dal giro delle volte, dalle colonne filettate dagl’ori, si chiedono ancora: perché? Perché mantarsi di una pallida stoffa, noi ancora vivi, e vestire d’argento le tibie dei morti?
Da quando, appena quattordicenne, vidi per la prima volta il cranio del Patriarca Domenico, ne rimasi affascinato: non per quell’attrazione ombrosa che ha il limitare della vita, l’estrema soglia, lo sporgersi e guardare per un attimo il burrone dal sentiero della propria esistenza, ancora al sicuro, si presume, ancora staccionato dall’inverdire delle forze. La verità è che quelle poche ossa spoglie, che pure incarnano la paura dell’uomo, la paura della perdita, profumavano di una ineffabile pace. Ed io stavo lì, incatenato da quella pace.
Per esse quell’uomo compì opere che lo resero giusto di fronte a Dio, per esse giunse alla salvezza, per esse espiò, pregò, cercò e predicò quanto lo aveva sorpreso nel silenzio di una vita: Cristo suo Redentore. Era gratitudine, quella pace, gratitudine per il proprio corpo, gratitudine perpetuata dai frati, perché ci insegnarono i padri della Fede che “caro salutis est cardo”[1], ossia, cardine della salvezza è il corpo[2]. Quella gratitudine è una promessa dell’anima al corpo, di Dio all’anima, che verrà quel giorno felice, in cui il cuore di quanti abbiamo in vita amato tornerà ad avere un volto. E i corpi dei santi operano ancora, a dimostrazione che con Cristo hanno vinto la morte, perché sebbene questa ne trattenga tutt’ora le salme, per la fiducia di coloro che pregano, non cessano di operare prodigi, più utili a noi dal cielo, di quando lo furono mai in terra[3].
Reliquie, così i nostri Anziani ci hanno insegnato a chiamare le ossa dei santi, reliquie e non relitti. Sebbene la radice latina del termine sia la stessa, non vi è nulla di più remoto: relitto è ciò che è stato abbandonato, relitto sono i vascelli divorati dal mare, i ruderi d’un castello scoperchiato nella maschera funeraria d’edera e felci, relitto è ciò che abbiamo di quanto altri hanno perduto, l’estrema eredità della morte. Le reliquie sono un lascito, un pegno, un dono, frutto della libertà del donante, perché esse condividano con noi la speranza della Vita ventura e con noi attendano ciò che gl’occhi gloriosi vedono faccia a faccia e i nostri occhi, gl’occhi della fede, possono intravedere appena fra le gioie di questa esistenza.
Il silenzio del padre dei predicatori
Non è curioso proprio questo? Che il padre dei predicatori, San Domenico, non abbia lasciato praticamente nulla di scritto ai suoi figli: non un trattato, un opuscolo o il frammento di qualche epistolario? Ci ha lasciato alcune pagine del suo breviario – cioè la sua preghiera liturgica – ci ha lasciato il suo cingolo, l’apice del suo bastone e in fine il mozzicone di un’antica tavola su cui compì un miracolo di moltiplicazione. Ma soprattutto ci ha lasciato l’Ordine, cioè il corpo di tutti i predicatori riuniti a vivere la medesima regola e le medesime costituzioni, e ci ha lasciato il suo corpo, nell’attesa di vivere ancora. Vi è un adagio fra i padri della nostra consacrazione: Silentium pater praedicatorum. Un’intuizione sapientissima, se pensiamo che il padre dei predicatori di sé ci ha lasciato solo il suo silenzio.
Vi è una ragione in questo. Infatti, il ministero profetico e quello della predicazione sono stati affratellati nel sangue di un’unica e straordinaria figura: San Giovanni il Battista. Egli è il modello tessuto in filigrana nell’animo di ogni predicatore, cioè di colui che prepara la strada (Cfr. Mc 1, 3b). Anzi il genio del Patriarca Domenico, quando trovò questa via per giungere alla piena maturità in Cristo, non ha fatto altro che ricalcare i tratti essenziali del Battezzatore, traducendoli in un carisma che non fosse puramente esclusivo del più grande tra i nati di donna (Cfr. Lc 7, 28), ma universale: l’arte di diminuirsi. E qui sta la prima grande intuizione del nostro fondatore: il battesimo non rende un uomo un nato di donna, ma un nato di Dio, sicché, se tutti sono inferiori a Giovanni in quanto nati dal grembo di una donna, tutti coloro che sono rinati dall’acqua e dallo Spirito (Cfr. Gv 3,5) gli sono superiori in quanto nati dal Seno del Padre. Questo significa: “E il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui” (Cfr. Lc 7, 28), perché è rinato dall’alto. Infatti, insegna il Maestro, ossia il Cristo: “In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3, 3).
La via del Patriarca
Ma domandò un notabile fariseo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Gv 3, 4), domanda che per un battezzato significa: “Come posso portare a frutto il mio battesimo?”. Ecco l’arte di San Domenico, l’arte di diminuirsi: essa non è e non va assolutamente confusa con la ‘malarte’ dello sminuirsi: sminuire qualcosa è sminuzzarla, farla a pezzi minuscoli, privarla della sua integrità e quindi eroderne la dignità. I padri insegnano che “la gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la manifestazione di Dio”[4]. Chi sminuisse l’uomo – che sia lui stesso o il prossimo è indifferente – sminuisce la Gloria di Dio e allora è smascherato il suo orgoglio. Infatti, chi sminuisse la Gloria di Dio, per farlo, dovrebbe ritenersi superiore a Dio, ma chi si pone al di sopra di Dio, non sta realmente umiliando se stesso, ma sta reinterpretando l’antica tentazione: “Non morirete affatto! Anzi […] sareste come Dio” (Gn 3, 5.7). Chi cerca Dio deve guardarsi dalla falsa umiltà, perché anch’essa è un’insidia della serpe.
Al contrario l’arte di diminuirsi è espressa profondamente da San Giovanni Battista, quando dice di se stesso: “Ora questa mia gioia è compiuta” quella che lui chiama la gioia dell’amico dello sposo: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3, 29-30). E si verifica questo straordinario paradosso: l’uomo che non diminuisce è meno di quello che diminuisce, perché diminuirsi non significa privarsi di nulla (non dice il profeta: “Questa mia gioia è compiuta”?), ma riconoscersi per come si è: il predicatore non si riconosce lingua meno di quanto non si riconosca parola. Ora, non insegnano così Sant’Agostino e gl’altri padri?[5] Se le parole servono ad indicare qualcosa e una parola crescesse a tal punto da nascondere ciò che significa, quella parola non varrebbe nulla, sarebbe insignificante: la superbia è quella cosa per cui più un uomo presume di sé, più è insignificante. Al contrario, la parola che lascia posto a ciò che indica è piena di significato e la sua gioia è compiuta.
Ecco chi fu San Domenico: un uomo che riuscì, attraverso lo studio e la predicazione nell’ininterrotta preghiera, a trovare una via per sé e per i suoi figli, che portasse Cristo a crescere nel cuore umano sino a traboccarne: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). Il priore del convento patriarcale ha colto con pienezza nella sua omelia questo aspetto, dicendoci che il retaggio di San Domenico è la sua assoluta trasparenza, perché non soffermassimo lo sguardo su di lui, ma perché, attraverso di lui, guardassimo ciò cui lui guardava. Infatti, guardare i santi è un guardare attraverso i santi.
Leggi anche Il Silenzio di Domenico, per saperne di più sul nostro fondatore o guarda il video L’arte racconta la santità di san Domenico – Intervista a p. Gianni Festa op.
[1] Tertulliano, De carnis resurrectione, 8,3
[2] Lett.: la carne
[3] Domenico di Guzman, il carisma della predicazione, cur. Pietro Lippini, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1993, p. 201
[4] Sant’Ireneo di Lione, Contro le Eresie, IV, 20, 7, in Sant’Ireneo di Lione, Contro le Eresie e altri scritti, cur. Enzo Bellini e Giorgio Maschio, Jaca Book, Milano 1997, p. 349.
[5] “Volendo parlare a te, cerco in qual modo posso fare entrare in te quella parola che si trova dentro di me. Le do suono e così, mediante la voce, parlo a te. Il suono della voce ti reca il contenuto intellettuale della parola e dopo averti rivelato il suo significato svanisce. Ma la parola recata a te dal suono è ormai nel tuo cuore, senza per altro essersi allontanata dal mio” [Sant’Agostino d’Ippona, Discorso 293, 3 in Liturgia delle Ore secondo il Rito Romano, lev, Roma 2010, vol. I, p. 251]