L’arte della preghiera
È un fatto: nuotare è un po’ come pregare. Come si impara a nuotare, nuotando, così si impara a pregare, pregando. Allora ogni qual volta preghiamo, soprattutto quando preghiamo secondo un modo antico, suggerito dalla Chiesa, dobbiamo prestare attenzione a due cose: a ciò che si dice e a come lo si dice. È con questa prospettiva che vorrei leggere le litanie: se stiamo a soffermarci su ogni singolo epiteto attribuito alla Beata Vergine Maria, su ciò che si dice, si possono gustare pillole di teologia che condensano tutto il pensiero cristiano alla luce della Madre di Dio.
Ma anche la struttura di ogni singola litania è un condensato straordinario di sapienza spirituale. Non dobbiamo, perciò, prestare attenzione solo a pregare le parole che diciamo, ma ad imparare a pregare da esse, cioè dobbiamo lasciare che la preghiera diventi maestra di preghiera. Se stiamo al metodo della litania vediamo subito che si compone di un titolo, che attribuisce un merito o un carattere lodevole, e di una supplica.
La litania e la Gloria
Ecco il primo aspetto fondamentale: la litania è una supplica che inizia dalla lode. Potrebbe apparire strano, addirittura contraddittorio rispetto al modo consueto con cui agiamo: fare complimenti a colui al quale si domanda qualcosa rende finta la lode, perché interessata. Non solo, fa vile chi loda, perché pare disposto a mercanteggiare il suo giudizio per ottenere qualcosa.
Per molto tempo l’umanità ha vissuto in questi termini il suo rapporto col Divino. Ma l’Altissimo è stato chiarissimo su questo punto: “Se avessi fame, a te non lo direi: / mio è il mondo e quanto contiene. / Mangerò forse la carne dei tori, / berrò forse il sangue dei capri?” (Sal 50, 12-13). Questo ci dice immediatamente, che la preghiera non è uno scambio. Se la si leggesse nella logica dello scambio, la troveremmo addirittura contraddittoria. Al contrario non si prega per ottenere, ma si ottiene di pregare ed è per questo che è comandato: “Offri a Dio un sacrificio di lode / e sciogli all’Altissimo i tuoi voti; / invocami nel giorno della sventura: / ti salverò e tu mi darai gloria»” (Ivi, 14-15).
Un momento, un momento: quest’ultimo passo sembra dire esattamente il contrario di quanto stavamo dicendo! Forse che Dio ci esaudisce in cambio della gloria? Par proprio di sì. Il punto è: quale gloria? Ora, “giusto è il signore, ama le cose giuste[1]” (Sal 11, 7). Ma giusto si definisce chi dà a ciascuno il suo[2], sicché, se Dio vuole che Gli sia data la giusta gloria, vuole che Gli sia data la Sua Gloria. Ma chi può dare ciò che non ha? Ed è qui che c’è il trucco: può dare a Dio la Sua Gloria solo chi ha la Sua Gloria. Ecco lo ‘scambio’ gustosissimo della preghiera: uno supplica e viene esaudito perché dia Gloria a Dio e, per darLa, la ottiene per sé. Siccome la Gloria di Dio è il fine ultimo di tutta la creazione, riceve il dono più grande. Dio ti esaudisce a patto che tu ti lasci esaudire di più.
Il dono più grande
È un mistero enorme la preghiera: pregare è entrare nella Gloria di Dio sin dai tempi in cui Essa ‘appare invisibile’, pregare è dono e il dono più grande, pregare è la pietra filosofale dei cristiani: chi l’ha può ottenere tutto ciò che vuole e chi l’ha ottenuta non vuole nulla di più, perché non vi è nulla di migliore: “Una cosa ho chiesto al Signore, / questa sola io cerco: / abitare nella casa del Signore / tutti i giorni della mia vita, / per gustare la dolcezza del Signore / ed ammirare il suo santuario” (Sal 26, 14). Pregare è vivere la compagnia di Dio.
Del resto, la sintesi di tutta la rivelazione non è forse proprio il Pater noster? In esso non ci vengono date soltanto delle parole, l’ennesima formula per rivolgerci al divino. Ci viene consegnata un’identità, la più alta di tutte: quella di figli di Dio. La nostra preghiera è la relazione del Figlio col Padre. Essa non è un mezzo per guadagnarsi qualcosa, è il modo divino di essere figli ed è la nostra vera eredità: “E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8, 17). Se dovessero mai chiederci: “Chi sono i cristiani?”, dovremmo poter rispondere: “Quelli che parlano a Dio come Dio, quelli che dicono all’Altissimo: «Padre»”.
Il segreto della litania
È tanto vero che la preghiera sia il dono, che le litanie non ci insegnano a chiedere qualcosa a Maria, ma a chiedere la preghiera di Maria. Infatti, si domanda alla Vergine di pregare per noi. Ma questa richiesta inizia annunciando la gloria di Maria. Dicevamo, infatti, che la preghiera inizia dalla lode. Noi che non siamo degni di chiamarla per nome, e preghiamo di essere salvati, addirittura le diamo un nome: un epiteto. Non uno qualunque, uno che riassume un mistero di salvezza. In questo senso la preghiera inizia dalla lode, perché inizia dai misteri della nostra salvezza. Con esso riconosciamo che l’iniziativa della nostra supplica non è nostra, è di Dio: è Dio che ci ha amati per primi, che ci ha salvati.
Ma questo dice l’atteggiamento fondamentale della litania: è preghiera che inizia dalla lode, perché è una lode che inizia dalla fede. “La tua fede” infatti “ti ha salvata” (Mc 5, 34). Nell’attestare la grandezza di Dio nella Sua opera, in Maria, compiamo un atto di fede e un atto di umiltà. Un atto di umiltà, perché ci riconosciamo deboli nel pronunziare, un atto di fede perché professare un mistero della Salvezza è professare la propria fede nel Salvatore. E poiché la fede ottiene tutto, nell’atto di pronunziare la lode è come se ne prendessimo coscienza, la mettessimo davanti agli occhi e in un qual modo pregustassimo già la gioia che supplichiamo di contemplare.
Così la litania ci insegna a pregare di poter pregare: i nostri padri domenicani, eredi di una tradizione pluricentenaria, ci hanno insegnato a concludere la Salve Regina con queste sensazionali parole: dignare me laudare te, Virgo sacrata – sacra Vergine, degnami di lodarti.
[1] “La giustizia è ciò in forza di cui si vogliono cose giuste” [San Tommaso d’Aquino op, La Somma Teologica, I-II, q. 19, art. 1, sed contra, trad. it di p. Giuseppe Barzaghi op, p. 209]
[2] “La giustizia è la volontà costante e perenne di dare a ciascuno il suo” [Ivi, II-II, q. 58, art. 1]