L’apertura dell’anno accademico della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, ci ha offerto, quest’anno, una preziosa opportunità: quella di riflettere su come essere sacerdote oggi e domani. La prolusione, affidata al segretario di Stato, S.E. Pietro Parolin ci ha offerto molti spunti preziosi, partendo dal primo e più fondamentale punto di riferimento di ogni forma di vita cristiana: ossia Gesù Cristo. In una società “liquida” in cui le identità e le relazioni sembrano essere sempre più sfuggenti, domandarsi chi è il prete non è perdere tempo in discorsi astratti e oziosi. È il prendere atto di una santa tensione fra la stabilità nella fede nel Salvatore e l’itineranza che la Chiesa è chiamata a vivere. Ecco perché, come intuì San Domenico, il rifugiarsi in schemi del passato, magari all’apparenza più rassicuranti e confortevoli, ma inadeguati, può essere causa di quelli che il cardinale Parolin ha definito: «errori fatali». Se è vero che ci sono delle sfide molto impegnative (quando mai la Chiesa non ne ha avute?) è altrettanto vero che non saranno le risposte preconfezionate a renderci davvero utili per la salvezza delle anime.
In questo senso, l’immagine del prete di oggi e di domani che è emersa, è quella di chi sa farsi accogliente nei confronti del prossimo, in forza di una vita di vera amicizia con il Signore. È questo che rende capaci di essere, allo stesso tempo autorevoli, ma non autoritari, e soprattutto misericordiosi come il buon samaritano. La consapevolezza di essere discepoli dell’unico maestro sarà un efficace antidoto contro la tentazione di farsi maestri, soprattutto quando la giovane età, e un pizzico di presunzione, può illudere qualcuno di aver già capito tutto e di poter sentenziare senza la necessaria prudenza.
Ecco perché, nella formazione al sacerdozio, è necessario che si rafforzi questa identità di discepoli in cammino, preparati non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello umano, perché nella confusione di questa “società liquida” c’è davvero tanto bisogno di persone che sappiano, prima di tutto ascoltare, poi accompagnare chi ne ha bisogno e per usare le esortazioni del card. Parolin: «cercare i lontani, i perduti, aiutare i dubbiosi, curare i feriti» e avere: «il desiderio di aiutare tutti e non perdere nessuno» cosa che difficilmente potrà avvenire se il pastore sarà o sarà anche solo percepito come freddo, rigorista e autoreferenziale.
Mentre le parrocchie hanno sempre più bisogno di rinnovarsi e i sacerdoti, in modo particolare quelli diocesani, sono e si sentono sempre più soli, emerge proprio la necessità di condivisione del lavoro apostolico e di una maggiore comunione, senza contare che anche l’apporto dei fedeli laici, potrà aiutare i sacerdoti, non solo dall’alleggerirsi dall’onore e dall’onere di fare tutto, ma permetterà a tutti di esprimere al meglio, nella maniera adeguata, il proprio fare parte della Chiesa. Dire che «Non siamo all’anno zero», sembra un’ovvietà, ma è bene ricordarlo, questo per evitare due possibili errori: quello di rifugiarsi in un passato che non si può più riproporre e quello di pensare che l’unica soluzione sia quella di ripartire da capo, abbattendo quasi tutto. In questo senso, proprio la via indicata, fra gli altri da San Domenico e San Francesco, quella di saper essere creativi, riconoscendo la novità dei loro tempi, ma rimanendo sempre in medio ecclesiae appare preziosa e ancora capace, non solo di chiamare tanti giovani alla vocazione della vita consacrata e del sacerdozio, ma anche di mostrare la gioia della vita e della vocazione cristiane: non si tratta di nascondere le difficoltà, ma di farle vedere alla luce della gioia di donarsi e donare la vita e poter essere davvero tutti di Dio per poter essere tutti per gli altri.