“Non li temete dunque, poiché non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”. (Mt 10, 26-28)
C’è un’intima consolazione in questi versetti del Vangelo che si configura nella delicatezza con cui Gesù pronuncia queste parole. Eppure si tratta di una delicatezza impetuosa perché travolge di una singolare e intrepida fermezza, quella che solo i Martiri conoscono e a cui l’Evangelista Matteo pensava nel trascrivere questo discorso di Gesù, avendo ben presente la drammatica situazione dei Cristiani. Ma non è tutto circoscritto al I secolo dopo Cristo, il Vangelo continua ad incarnarsi, continua a dispiegare le stesse e sempre identiche pieghe della storia e soprattutto continua ad avere la stessa forza: chiede di essere annunciato, gridato, svelato, mai taciuto.
Da giorni si consuma davanti ai nostri occhi il dramma del piccolo Alfie e ogni volta che compare sui quotidiani un aggiornamento circa la sua vicenda, mi risuonano nel cuore queste parole di Gesù: “Non li temete”. È umanamente normale temere le ingiustizie estreme che possono nuocere fino alla morte ma, fateci attenzione, il baricentro non cade sulla paura, il fulcro del discorso non si focalizza su quegli uomini iniqui e assassini che scatenano il panico perché la prima esigenza che emerge, qui, è quella di un atto di fiducia totale.
Ma potremmo mai fidarci di un mentitore, di uno che non sa quel che dice? Oh no, non lo faremmo mai! Eppure, noi possiamo accogliere queste parole fiduciosamente solo perché Chi parla, nel dircele, ci mostra le mani, i piedi e il costato. La fiducia in quell’istante acquista un prezzo: tutto il Sangue del divino Redentore, versato per noi fino all’ultima goccia, fino alla consumazione totale. È solo per questo che siamo certi di poterla consegnare tutta. Allora quelle piaghe, le sue piaghe, iniziano a pulsare nella concretezza dell’esistenza, sono vive dentro la nostra storia, dentro quella di ciascuno di noi e in quella del mondo: assimilano le nostre piaghe, trasformandole nei segni di un amore che resta, che non demorde, che non delude mai. Ma proprio perché resta, disturba l’iniquità umana.
Il piccolo Alfie Evans disturba. I suoi genitori disturbano. Chiunque si associ al loro grido di verità è scomodo. In nome di una società che millanta rumorosamente un falso progresso, chiunque stia dalla parte dell’Amore, di quell’innocente ingiustamente condannato, avrà la sensazione di sentirsi nel pretorio di Ponzio Pilato la mattina del Venerdì Santo, sopraffatto dalle grida di chi dice “crocifiggilo!”… E così hanno crocifisso l’Autore della vita (cf At 3,15).
Quale speranza, allora? Perché insistere nel proclamare il Vangelo ad un mondo sordo? Perché tentare di convertire alla Giustizia senza risultati? Perché mostrare la Croce di Cristo se già sappiamo che non verrà accolta? “Il prezzo della giustizia è sofferenza in questo mondo: Lui, il vero re, non regna tramite la violenza, ma tramite l’amore che soffre per noi e con noi. Egli porta la croce su di sé, la nostra croce, il peso dell’essere uomini, il peso del mondo. È così che Egli ci precede e ci mostra come trovare la via per la vita vera” (Benedetto XVI).
Guardate il sorriso del piccolo Alfie, manifesta tutta l’intrepida fermezza del Testimone verace! Nella sua innocenza e fragilità è stato unto Profeta dell’Agnello per testimoniare candidamente la vittoria e la signoria di Cristo sul mondo. Se abbiamo abbastanza fede, forse è inutile dirlo, ma io ci tengo ugualmente a farlo: Alfie, non li temere, con Lui, hai già vinto il mondo.