L’amicizia di Cristo
“È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Col 1,28-29).
Terminato il noviziato, periodo ancora eminentemente orientato al discernimento vocazionale, ed emessa la professione semplice, credo sia venuto il momento di una riflessione concreta, oggi più di ieri, sul senso della mia consacrazione religiosa all’interno dell’Ordine dei Predicatori.
Ho scelto di partire dalle parole di San Paolo, le quali presentano con sintetica efficacia quella che è l’autentica dimensione donativa dell’annuncio cristiano: la mia vocazione, infatti, inizia proprio da qui. Io nasco teorico dell’informatica, in un contesto di studi scientifico e perciò neutrale, che prescinde di per sé da qualsiasi visione di fede; nonostante questo, la maggior parte delle amicizie che stavo stringendo, dentro e fuori l’ambiente universitario, si rivelava perlopiù lontana da una reale dimensione cristiana.
Questo non poteva lasciarmi indifferente. Innanzitutto, partiamo da qui: tutti desideriamo una cosa sola, essere felici. Ma che significa? Come si può in un mondo finito e limitato colmare un desiderio di felicità infinito ed illimitato? La felicità vera non può che essere altro: un infinito Altro, ma non astratto e lontano; un infinito Altro che si incontra, che ha un Nome, che è Persona. Che conferisce senso ad ogni cosa. In una parola, Cristo. Una volta incontrato, Egli non può appunto lasciarci indifferenti. Quando si vuol davvero bene a qualcuno, se ne desidera la piena felicità; il bene infatti è diffusivo e la felicità si vuole sempre condividere. Volere la felicità delle persone a me care stava allora assumendo l’impellenza di poterle condurre all’unica fonte da cui avrebbero potuto trarla, di condurle all’amicizia di Cristo. Peraltro, la loro lontananza da essa non era dovuta al pregiudizio di una convinzione radicata, ma, spesse volte, era soltanto l’ignoranza a muovere ad un rifiuto e questo mi confermava sempre più nel mio proposito.
Come fare allora? Tutto ciò richiedeva una radicalità nuova, richiedeva di vivere appieno la dimensione coinvolgente del Vangelo. Il messaggio degli apostoli, seppur esigente da un certo punto di vista, dall’altro non negava in nulla né la mia vita, né la mia libertà, ma, al contrario, si proponeva di portarle a compimento. Non era solo un elemento positivo fra gli altri: era quel positivo che racchiude in sé tutto ciò che vi è di universalmente positivo. La questione non riguarda semplicemente una vita singola, nella fattispecie la mia, ma la vita stessa: scoprire la propria vocazione alla santità, implica scoprire quella dell’uomo in senso universale. Il fine è lo stesso, le vie possono variare.
Non era però un fine posto semplicemente alla fine… esso era, al contrario, legato ad un movimento di, per così dire, ritorno, un tornare alla fonte: ritornare, se è concesso dirlo, ‘apostolo’. Pertanto, ritornare al kerygma, al contenuto essenziale della Fede, cioè al Cristo morto e risorto; significava accettare, nel 2017, di diventare ‘come uno dei dodici’. Certo, non come successore degli apostoli in senso diretto, un vescovo (ci mancherebbe!), ma nel senso espresso da questo passo della nostra Costituzione Fondamentale (IV): “Partecipi della missione degli apostoli ne seguiamo anche la vita nella forma concepita da San Domenico”. Ecco cosa ha significato per me entrare nell’Ordine domenicano: assumere oggi detta apostolica vivendi forma. Cristo infatti ne costituì Dodici, che chiamò apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare (Cfr. Mc 3,14).
Vera proposta di salvezza
Abbiamo parlato dell’amicizia di Cristo. Dobbiamo tenere conto, tuttavia, che Cristo stesso non ha chiamato amici solo pochi eletti, ma ogni uomo. Ha dato la vita per tutti, per amore, infatti non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici (Cfr. Gv 15, 13). Non potevo allora limitarmi solamente alle persone che mi erano prossime, soprattutto nell’ordine dell’affetto, ma dovevo farmi io stesso prossimo: da ciò la necessità di portare l’annuncio evangelico ad ogni uomo, quale vera proposta di salvezza (Cfr. LCO III, 108, § II).
Salvezza? Da che cosa? È proprio qui che inizia il lavoro della predicazione: ricordare ad un mondo sazio e disperato che ha bisogno di essere salvato. Sì, salvato dal peccato e dalla morte: talvolta il mondo guarda alla vita religiosa con gli occhi di chi teme di essere giudicato e ne prova una certa avversione. Ma noi non siamo portatori di giudizio; non giudichiamo neppure noi stessi, secondo l’esempio di San Paolo (Cfr. 1 Cor 4,4). Siamo portatori di Fede in Cristo, fiaccole del Dio vivente, poiché chi crede in lui non è condannato (Cfr. Gv 3,18).
Perché vera? Poiché, lungi dall’esaurirne il mistero, è possibile dar ragione della speranza che è in noi (1Pt 3,15): se la Fede possedesse una carta d’identità, alla voce “segni particolari” recherebbe certamente scritto “profonda ragionevolezza”. A differenza della maggior parte delle fedi umane, quella cristiana cerca, e trova, un’alleanza con tutto ciò che la nostra intelligenza può scoprire, di qui la fondatezza dei preamboli che possono preparare la via all’incontro col Dio fatto uomo, orientando a favorirne un rapporto sia intimo che ecclesiale.
Infine, è magnifico che questa vera salvezza si presenti come proposta: essa chiede un atto di libera adesione interiore, non è una dittatura, al contrario, si fonda propriamente sulla radicale libertà di scelta degli uomini, pur inscindibilmente congiunta all’azione divina della grazia.
Perdere tutto, guadagnare tutto
Un’ulteriore sensazione di meraviglia mi coglie infine quando ripenso alla mia vocazione, a ciò che è una vocazione. Come, rispetto ad essa, la stoltezza di Dio sia più saggia della sapienza degli uomini, la sua debolezza più forte della fortezza umana. In fin dei conti, anch’io posso in questo modo immedesimarmi oggi in quei dodici: incerti e timorosi, pescatori e pubblicani, provenienti dalla più insignificante regione di un impero loro ostile. Il più grande miracolo del cristianesimo, dopo la stessa rivelazione di Cristo, è stata senza dubbio la sua diffusione.
Per quanto appaia incredibile, eccomi nella stessa impresa: diffondere ovunque il Vangelo del Maestro. Ma dalla meraviglia nasce nuova meraviglia. Osserviamo: i dodici hanno abbandonato tutto, rischiando più volte il martirio, subendolo infine, e, a fortiori, non mentre Cristo era in vita, bensì dopo ch’Egli giaceva morto; nella certezza d’averLo visto risorto, perdendo tutto, guadagnarono tutto, a testimonianza di come la predicazione non sgorghi da un semplice atto di creatività umana, bensì lo ecceda nell’integrale contemplazione del Cristo risorto. Contemplazione che rifulge, dalla fondazione sino ad oggi, nell’Ordine, nella sintesi di orazione, studio e vita fraterna.
In definitiva, mi viene in mente un detto di san Domenico. Egli usava ripetere in veglia notturna: “Signore, che ne sarà dei peccatori?”; non siamo forse tutti peccatori? Che ne sarà, allora, di noi? La mia vocazione è stata, con l’aiuto del Signore e della Beata Vergine Maria, un tentativo di dare una risposta a questa domanda.