Duecento metri sotto la torre di Galata, si nasconde una ostinata presenza domenicana, sopravvissuta a guerre e terremoti, a imperatori, sultani e presidenti. Oggi, come mai prima, è ridotta al lumicino: quattro frati tra Istanbul e Smirne. L’Osservatore Domenicano ha deciso di lasciarsi raccontare da p. Antonio Visentin, superiore della comunità, l’aria che si respira sul Bosforo.
Antonio, come nasce la tua vocazione?
Sono nato il 23 marzo ’53, a Campo San Piero dove è morto sant’Antonio da Padova. Eravamo gente povera, la parrocchia era lontana e noi andavamo alla chiesa dei francescani.
Quando venne un domenicano, p. Pierbon, a parlarci al catechismo, chiese chi voleva passare una settimana in convento. Io ero timido e mi guardai bene dal rispondere. Rispose per me una mia cugina e così sono entrato nella “rete bianconera”.
… tutti i domenicani conoscono il tuo amore per il Brasile.
Ho sempre avuto il desiderio della missione. Il primo dicembre dell’87 sono partito in nave da Genova. Ho fatto 21 giorni di mare. Parti in inverno e arrivi in estate. Mi sono sentito subito a casa. Sono rimasto in Brasile 6 anni. C’era un progetto di andare in Amazzonia (e ora lì c’è una comunità presente) … mi sarebbe piaciuto servire la gente più abbandonata. Invece, il provinciale mi ha richiamato in Italia.
E la Turchia?
Dal 2012; precisamente il 2 febbraio, giorno della vita consacrata. Per me è come una nuova consacrazione. Porto dentro di me una grande spinta: la missione, la strada, l’avventura, le culture del mondo. Fin da bambino ho trovato dentro di me questo dono della missione.
A 60 anni rimettersi in gioco, imparare una lingua, una cultura così diversa non è facile. Forse, dico ai miei confratelli, sono arrivato nell’emisfero sbagliato. È una forma di povertà. Mi sento partecipe della vita di milioni di persone che vivono da stranieri, in altre culture e la loro fatica è più grande della mia: io ho già una casa; loro devono cercarsi un lavoro. È una povertà, perché non hai il contatto immediato con l’altro, per parlare, conoscersi, capire. In compenso cerco di vivere la mia vita più in profondità.
Ma la Turchia è un mondo così vicino e totalmente nuovo. Questo mi affascina.
Cosa fanno i domenicani in Turchia?
Dobbiamo fornire la diakonia della contemplazione, come quei monaci cristiani che riempirono di meraviglia Maometto pregando anche di notte. Ci è dato di vivere la nostra spiritualità: contemplata aliis tradere. Sono i tempi di preghiera a dettare la vita tua e della comunità. E qui siamo chiamati 5 volte al giorno alla preghiera dal canto del muezzin. Qualche volta lo dico a chi mi sta vicino: senti, ci chiamano alla preghiera. Viviamo una comunione con i turchi sotto questo aspetto.
E poi l’umanità: dobbiamo essere persone affabili. Questa è una città piena di ponti e l’affabilità è un ponte con il popolo turco, che è molto ospitale. Questa nostra casa deve essere un segno di ospitalità.
Infine lo studio: dedicare tempo per approfondire il mistero di Dio e della Chiesa dentro un percorso di comunione con le chiese sorelle cristiane e la grande sfida con il fratello musulmano che ha una visione totalmente diversa della vita, di Dio. C’è un contatto semplice con la gente, quando sei per strada, vai a fare la spesa, sei sul battello. Ma questo non basta, anzi. Ci vuole anche chi ha contatti più importanti, all’università con chi forma la mentalità di un paese, di una cultura.
Quando sono arrivati i domenicani in Turchia?
Siamo qui fin dal 1230, per riportare nella comunione con Roma i fratelli ortodossi e curare la comunità levantina. Non c’era la preoccupazione del dialogo con l’Islam. Leggendo le cronache dei nostri frati, si capisce che non c’era molta stima verso il mondo musulmano turco. Ora le cose sono cambiate. In questa città, in questo luoghi, io benedico ancora di più Dio per quel dono fatto alla chiesa e all’umanità che è stato il Concilio Vaticano II, per le sue aperture. Ma già Giovanni XXIII, quando era nunzio qui, invitava ad uscire. Diceva che non siamo al tempo delle catacombe.
Ora la comunità parrocchiale non c’è più, bisogna cogliere dove focalizzare la nostra attenzione, la nostra passione, la nostra azione pastorale. Ma piuttosto che chiederci: “Che cosa ci facciamo qui?” dovremmo chiederci: “Che cosa Dio sta facendo per noi?” Noi elaboriamo progetti, ma le cose non cambiano. Progettare è importante, ma qui a volte è come se ti venisse tolta da sotto i piedi la terra. Sembra che la nostra vita sia inutile, come dice il Vangelo: servi inutili.
Credo invece che dobbiamo lasciarci plasmare dallo Spirito di Dio e dalla storia concreta di questo paese, come l’albero scolpito dalla natura.
Un caro saluto Fr. Antonio e un abbraccio. Orgoglioso di averti conosciuto e condiviso con te i temi di Giustizia e Pace.
Va bene, Gennaro, glielo saluto appena lo sento!