La morte dell’uomo saggio

«Breve, per noi, è il tempo delle stelle, benché gli anni di questo cosmo siano detti in numeri che sfuggono ad ogni immaginazione»1. Come suonano diverse queste parole, ora che chi le ha scritte ha compiuto l’ultimo viaggio, quello che non ha meta in questo mondo. E davvero par breve, per noi, il tempo e quello degli amici più ancora: perché, se non basta una vita per impratichirsi nella comprensione di sé, ci vorrebbe un’era per poter conoscere un amico quanto meriti. Tale è sempre stato, per noi frati predicatori, Maurizio Malaguti, ordinario di filosofia teoretica all’Alma Mater Studiorum.

Un uomo mite, di un’umanità straordinaria, perché infuocato da una fede saggia, ponderata. Mi viene da dire col salmista: «Il Signore dal cielo si china sugli uomini / per vedere se esista un saggio: / se c’è uno che cerchi Dio» (Sal 13, 2). Lo ha trovato e se lo è preso con sé. Ma sappiamo, e questo ci consola, che ciò che Dio prende, non lo sottrae, lo dona. Solo muta la modalità con cui si può fruirne: prima parlavamo con Maurizio a viva voce, lo abbracciavamo, lo ascoltavamo, mangiavamo con lui. Ora, l’unico modo con cui possiamo fruire del dono della sua compagnia, è attraverso il dono della preghiera. Il dono, quindi, non solo non ci è tolto, ma è raddoppiato. Maurizio non sente la nostra mancanza, ci è assolutamente prossimo come mai lo fu prima.

Allora perché noi la sentiamo? È normale, siamo fatti di carne ed ossa e sentiamo la vicinanza quando sensibilmente vediamo diminuire la distanza e spontaneamente crediamo lontanissime le cose che neppure vediamo. Ma questo senso di lontananza e spaesamento, non dice una reale lontananza dei nostri cari, ma dalla dimensione con cui loro ci sono onnivicini. Allora come si può vincere questo senso di vuoto che abbiamo nel cuore? Anticipando il loro modo di rendersi presenti. Come? Divenendo regolari nella propria vita di preghiera: la regolarità è essenziale. Una preghiera sporadica è come un antibiotico che si prende senza continuità. Non fa nessun effetto. D’altro canto, essa è una breccia nel muro della morte, per cui attraverso di essa cielo e terra entrano in comunicazione.

La filosofia dell’interiorità

Vi è anche un secondo modo: la sua filosofia, accoglierne la provocazione in quanto provocazione. Non significa essere d’accordo in tutto, ma significa prenderne sul serio l’appello. Anche perché le due cose non si possono separare. Ricordo che all’inizio di un suo magnifico libello scriveva: «Amare la filosofia è amare la vita. Se si intende per filosofia una schematica sistemazione di concetti, una arida enumerazione di teorie ciascuna delle quali merita un interesse di tipo soltanto storico, è ridicolo amarla quanto la vita. Non questa certamente, ma la vera filosofia merita amore perché è vita, è principio di vita»2. Chi vuole prendere sul serio la sua vita, deve prendere sul serio il suo pensiero. E se la persona era meravigliosa, è impossibile che non vi sia almeno un poco di questa meraviglia nel suo pensiero, sebbene la vita di un uomo superi sempre la comprensione che questi ha della sua vita.

Anche se di molte cose non potrò parlare, voglio iniziare ora: siccome Maurizio era saggio, in quel «breve per noi il tempo» vi è molto di più che una poetica affermazione dell’evanescenza delle cose. L’uomo e solo l’uomo, la cui vita pure si conta in pochi soli, può dire breve qualcosa che sovrasta la sua stessa immaginazione. Come può dirlo? Solo se nell’essere umano vi è qualcosa di così nobile da trascendere ogni immaginabile. Maurizio Malaguti la chiamava interiorità. In questa parola c’è tutto il suo pensiero.

Si può vedere la radice bonaventuriana della sua intuizione: nell’itinerarium mentis in Deum il Dottore Serafico quasi cartografava le tappe che la mens, ossia il cuore pensante dell’uomo, ha da compiere per giungere a Dio. Dov’è la sede di questo incontro? In nessuna cosa visibile e tangibile, in quanto tutto ciò che possiamo vedere, udire e in un qualche toccare, può essere oggetto di immaginazione: la sede dell’incontro con Dio è al di là delle immagini, sicché dell’interiorità propriamente non si dà immagine. Anzi il nostro pensatore giunge a dire che «se vogliamo raggiungere la verità più pura del nostro esserci come “io”, dobbiamo rimuovere tutte le immagini, tutte le esperienze determinate mediante le quali abitualmente pensiamo e conosciamo noi stessi»3.

Egli giunge a dire che «l’“io” in quanto atto pensante non è oggetto, non può essere annoverato quale un caso particolare tra gli oggetti conoscibili. L’“io” è nell’essere ma non tra gli oggetti»4. Perché? Perché chi ignora è sempre inferiore a chi conosce. Così, noi siamo nel mondo, ma, come notava un saggio coreano, in quanto conosciamo il mondo, in un qual modo trascendiamo il mondo. Per questo egli dice che siamo nell’essere, perché esistiamo. Tuttavia, la nostra forma di esistenza è diversa da quella di tutte le altre cose, perché a differenza di tutte le altre noi sappiamo di esistere, siamo coscienti di noi stessi: «L’“io” è “esistenza” consapevole in se stessa di sé»5.

L’uomo, il cosmo e la soglia

Per questo con Pascal e in antitesi ad ogni materialismo6, Malaguti esprime un’umanità irriducibilmente superiore a tutto il restante cosmo. Ma bisogna cogliere esattamente cosa sia davvero questa superiorità, perché anche l’immaginazione dell’uomo è nell’uomo, eppure anch’essa è superata. In un suo precedente libello egli scriveva che «il valore superiore non è tale se esclude gli inferiori; ma lo è proprio nella misura in cui tutto quanto è inferiore sia dilatato, nel trascendimento, in una prospettiva di analogia verticale»7, infatti «il manifestarsi dell’essere è dato in analogia»8. Il termine analogia, che Malaguti riprende dalla migliore tradizione medioevale, dice l’idea chiave: non c’è competizione tra gli esseri, tutti concorrono ad un medesimo significato, per questo supera davvero gli altri chi non lascia indietro nessuno. Cosa significa questo per l’uomo? Maurizio giunge a dire che in quanto uomini «siamo piuttosto una voce del Tutto entro il quale viviamo», infatti, «in noi in quanto siamo pensanti, l’universo ha varcato la soglia dell’interiorità»9.

Questa parola, soglia, nell’antropologia malagutiana dice essenzialmente che cosa è l’uomo: «L’identità dell’uomo è una soglia: sembra un’aurora tra l’opacità della natura corporea nella quale siamo ancora immersi e la trasparenza dello spirito che si apre al sorgere della luce»10. Una soglia è l’invisibile linea che sta tra due spazi o dimensioni, dividendoli da un lato, ma dall’altro mettendoli in comunicazione. Il primo è quello del mondo corporeo. Se vi fu un tempo in cui l’uomo credeva che il suo centro fosse nella natura, tanto da adorarne le potenze, ora siamo in un tempo in cui impera la consapevolezza del nostro dominio. L’uomo si sente al centro del mondo perché dotato della capacità di manipolarlo. Questa capacità si chiama tecnica. Di fronte a ciò la provocazione di Malaguti diviene urgente: è vero che siamo al centro, ma lo siamo in quanto siamo solo a metà, fra spirito e materia. Fermarsi quando si è arrivati a metà di un percorso è ancora più sciocco che non essere mai pigramente partiti: arrivati a metà, la strada per giungere alla fine e quella per tornare indietro si equivalgono. Ed è per questo che «non possiamo arrestarci alle impressioni dei sensi»11, ma il fatto che dica che non bisogna arrestarsi ai sensi, implica che bisogna passarci attraverso, «poiché nella condizione del nostro stato attuale la stessa totalità delle cose è scala per salire a Dio»12.

Oltre la soglia

Dunque, bisogna distinguere fra gli esseri creati quelli prima della soglia, che in rapporto a Dio sono vestigi, e quelli che sono dopo la soglia, ossia immagini13 di Dio. I primi, come ci dice la stessa parola, sono orme del divino, impronte sulla mobile sabbia e dicono più la direzione da seguire che qualcosa della vera identità di Chi le ha lasciate. Esse, infatti, non sono dotate di pensiero. Le orme, piuttosto, servono a condurre verso una nuova dimensione giunta la quale siamo richiamati «in noi stessi, cioè nella nostra mente, in cui risplende l’immagine di Dio»14. Così l’itinerarium mentis diviene «un percorso in interioritatem»: un percorso dentro di sé che «ha il suo centro non nell’“io” stesso, ma in una più alta interiorità rispetto alla quale noi stessi siamo “vuoto”»15. Come, siamo più densi di tutte le cose, ma siamo vuoti? Siamo come soglie: la soglia di una casa non è nulla senza casa, nulla più di un rudere.

Così l’uomo si scopre nulla senza quella profondità verso cui la sua interiorità lo richiama. Il nichilismo della cultura tecnocrate, spesso distruzionista, non è altro che l’esplicitazione di questa scoperta: se noi siamo il centro di tutto e noi da soli siamo nulla, tutto è niente e cambiar tutto è cambiar nulla. Se nulla cambia, allora tutto diviene lecito. Di qui l’assoluta libertà di auto-determinazione che caratterizza il nostro tempo. Ma questo può accadere solo se la scelta umana ha perso di significato. Al contrario, solo nella rettitudine le azioni umane divengono realmente significative, valgono, e la misura di questo valore sta tra la trasgressione e il compimento. Ma questo valore ha senso solo se il suo fondamento è posto al di là dell’uomo, se nessuna volontà umana lo può mutare. San Tommaso lo chiamava legge naturale16. La legge naturale dice solamente che la nostra identità ultima, contro la quale è somma insensatezza rivolgersi, riposa in Dio soltanto. Di qui l’intuizione di Maurizio, quasi mistica, che «l’Origine di ogni identità è nella Trinità Santissima»17.

In fin dei conti è proprio questo l’itinerario che egli ha cercato di tracciare: un ritorno all’Origine, che è il solo vero modo di ritornare in sé stessi, perché il contenuto ultimo della nostra identità riposa nell’Origine. Cos’è, infatti, l’uomo? L’uomo è immagine di Dio, cioè che Dio fa, e per questo non può essere oggetto della propria finita immaginazione, senza esserne diminuito. Ciò che può compiere, invece, è itinerario in se stesso. Se è uomo, «(…) non sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / ‘più in là!’»18. Così l’itinerarium in interioritatem diviene itinerarium in Deum e «vivere in filosofia» diviene «custodire la memoria dell’origine su percorsi operosi di speranza»19.


1 Maurizio Malaguti, In humanitatem spiritus, Inchiostri Associati Editore, Bologna 2005, p. 7.

2 Maurizio Malaguti, Liberi per la Verità, 1, Cappelli Editore, Bologna 1980, p. 7.

3 Ivi, p. 52.

4 Ivi, p. 38-39.

5 Ivi, p. 18.

6 Cfr. Ivi, p. 10.

7 Maurizio Malaguti, Liberi per la Verità, 11, Cappelli Editore, Bologna 1980, p. 127.

8 Maurizio Malaguti, Presentazione, in Alberto Baggio, Fondati in Alto, Aracne, Roma 2016, p. 14.

9 Maurizio Malaguti, In humanitatem spiritus, Inchiostri Associati Editore, Bologna 2005, p. 7.

10 Maurizio Malaguti, Nell’audacia del bene: la creazione, 8, in Il vertice e l’abisso, Doctor Seraphicus LXV, EBF, Milano 2018, p. 97.

11 Ivi, p. 30.

12 San Bonaventura, Itinerario della mente in Dio, I, 2, trad. it. Silvana Mortignoni e Orlando Todisco, Città Nuova, Roma 2012, p. 44.

13 Cfr. San Bonaventura, Itinerario della mente in Dio, I, 2, trad. it. Silvana Mortignoni e Orlando Todisco, Città Nuova, Roma 2012, p. 44.

14 Ibidem.

15 Maurizio Malaguti, In humanitatem spiritus, Inchiostri Associati Editore, Bologna 2005, p. 52.

16 Cfr. San Tommaso d’Aquino op, Summa Theologiae, I-II, q. 94

17 Maurizio Malaguti, Nell’audacia del bene: la creazione, 9, in Il vertice e l’abisso, Doctor Seraphicus LXV, EBF, Milano 2018, p. 100.

18 Eugenio Montale, S’è rifatta la calma in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2017, p. 73.

19 Maurizio Malaguti, In humanitatem spiritus, Inchiostri Associati Editore, Bologna 2005, p. 7.

Non perderti nessun articolo!

Per restare sempre aggiornato sui nostri articoli, iscriviti alla nostra newsletter (la cadenza è bisettimanale).

fr. Pietro Zauli
Chi sono? In verità non ne so molto più di voi. Del resto, vivo anche per scoprirlo. Ma giustamente chi legge questo genere di presentazioni, si attende una sfagiolata di dati anagrafici. Essia! Sono nato all’Ospedale Maggiore di Bologna quel glorioso 9 settembre del 1994 (glorioso per ovvie ragioni). Chi non mi ha mai veduto senza barba, ipotizza che mi trassero dal ventre di mia madre proprio tirandomi dalla barba… inquietante, ma non smentirò questa leggenda. Frattanto in questi 25 anni di vita ho frequentato il liceo scientifico Malpighi, mi sono appassionato a Tolkien, alla Filosofia, alla Poesia medioevale e novecentesca, infine alla cinematografia, su cui amo diffondermi in raccolte meditazioni crepuscolari. Cosa ho compreso saldamente? Ad una sola vita, un solo modo per viverla. Per questo appena conseguita la maggiore età, ho fatto domanda di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Attualmente mi nutro di studi di San Tommaso, di spiritualità e di metafisica (sto affrontando un densissimo filosofo Polacco, Przywara … la pronunciabilità del nome è direttamente proporzionale alla sua chiarezza). Per contattare l'autore: fr.pietro@osservatoredomenicano.it