I «fagioli con l’occhio»
A un bimbo un giorno fu offerto un piatto dei pregiati «fagioli con l’occhio», caratterizzati da una macchia sul lato, ma non ne volle mangiare, per la paura di essere osservato da dentro.
«Occhio». Quante cose ci dice la semplice parola che abbiamo enunciato! Un rumore come un «click» ci ricorda il battere rapido della palpebra, capace di imprigionare impressioni e rinviante all’aspetto intuitivo dell’anima, come un interno schioccar di dita.
Etimologicamente «occhio» si ricollega, tramite uno snodo consonantico, al greco «òp-s», da cui «op-tica», ottica. La sensibilità greca si concentra soprattutto sulla dimensione dinamica della vista: il muoversi dell’occhio in ricerca del suo oggetto, la danza dei colori ingaggiati nel gioco della percezione visiva. Quasi un «ópus», un’opera, che richiede impegno e attività, ma conduce a un risultato finale eccellente: il capolavoro della conoscenza e della connessione del tutto.
Curioso notare che l’«occhio» greco, «òp-s», è legato anche a «òf-talmico», dove la radice sembra riprodurre specularmente il suo oggetto: «fò-s», la luce. E, difatti, l’immagine simbolica dell’occhio che per prima ci viene alla mente sembra stilizzare, più che un occhio umano, quello rapido e rapace dell’aquila, capace di contemplare dall’alto il tutto e soprattutto di fissare lo sguardo fin nella luce accecante del sole (come credevano i medioevali). Ci ricorda così che l’oggetto della nostra attenzione non può che essere la luce, cui caratteristica principale è di elevare verso altezze sempre maggiori. Sino all’Assoluto, come le acute vetrate che inondano di bianco la cattedrale gotica.
Tutto è sguardo.
L’occhio è quasi la sintesi di tutta la persona. La presenza dell’occhio è la presenza della persona. Sentirsi osservato equivale al percepire una presenza. Desiderare la presenza di una persona è innanzitutto desiderare essere visto, individuato, fissato, osservato, considerato, essere posti alla sua attenzione. Addirittura possiamo ammettere di non vedere colui alla cui presenza vogliamo stare, ma per essere avvolti dalla sua presenza dobbiamo avere la certezza di essere sotto il suo sguardo, ancor più che di avere il suo ascolto. Se ci guarda, certamente non è indifferente. Quand’anche fosse distratto, possiamo attirare la sua attenzione, se ci vede. Ma difficilmente potremo, con le nostre parole, attirare uno sguardo che è altrove.
Nell’occhio dell’altro si rivede un sé stesso capovolto, svuotato quindi di ciò che è leggero e non radicato, purificato da ciò che è vano, e al tempo stesso si è immersi nella conoscenza dell’irripetibile unicità del fratello, dell’«infinito» dell’altro. Ma l’incontro oculare non è solo quello naturale, «verde», fraterno, paritario: può essere anche quello grazioso, colmante e avvolgente dell’occhio celeste. Questo è lo sguardo verticale della complementarità tra cielo e terra: lo sguardo reciproco, perso e irremovibile, di Cristo e della Chiesa.
Sullo sfondo di questo sguardo, espressione dello sguardo del «Padre celeste» che «sa ciò di cui abbiamo bisogno», anche i nostri sguardi umani sono affascinati dal richiamo a penetrare in un abisso che non ha fine, in un incontro mediato e immediato con l’Eterno Fratello, il primogenito di una moltitudine di fratelli creati a Sua immagine e chiamati a condividere la Sua Essenza.
Ringrazio il signor Andrea per avermi ricordato, con l’aneddoto del «fagiolo con l’occhio», quanto deve impressionarci e toccarci la possibilità di vedere e, soprattutto, di essere visti.