Non è la prima volta che si è davanti alla sfida dell’integrazione tra “Lari e Penati”, come li chiamerebbe Italo Calvino, cioè tra coloro che partecipano all’identità collettiva con il loro patrimonio stanziale e coloro che vi partecipano portando energie e motivazione da fuori. In particolare, la Lombardia è stata, come dice il suo stesso nome, un luogo dove l’identità della società si è formata a più riprese per via di integrazione in un recipiente culturale accogliente di elementi sopraggiunti col tempo. Ne è un emblema una parola che ora andremo a presentare: facendoci zingare la leggeremo come una mano, e vi scorgeremo tutto il suo passato, e tutto il suo futuro.
La parola è “laìn“, derivato da “latin-“ con doppia lenizione1, che ha portato la “t” a scomparire del tutto. Sappiamo con quale orgoglio i popoli delle alpi orientali si definissero e si definiscano “ladini”, in contrapposizione ai loro cugini, forse non molto diversi, ma che non avevano mai fatto parte del grande sistema romano. La cosa ironica è che forse per un “vero” latino gli abitanti del Trentino o del Friuli non sarebbero parsi in nulla diversi dagli altri “barbari” che abitavano un poco più in là, ma sappiamo bene che la percezione di un dentro e di un fuori cresce sui confini. Qui, ed è il momento fontale della nostra parola, “laìn“ si contrappone dunque a “germanico”, a straniero, fondamentalmente. Il suo significato è quindi quello di “persona normale”, “comune”, di questo stile di vita ormai acquisito, dove la pace e la burocrazia sono elementi importanti o comunque abituali. Non è molto diverso da oggi.
Ma insensibilmente avviene un passaggio nel significato della parola, ed essa comincia ad avere una connotazione più generale. È “latino” ciò che è semplice e chiaro, lineare e comprensibile, rispetto a ciò che è ignoto, strano, astruso. Da un lato questo è chiaramente un valore positivo, quel carattere che permette di riconoscere una persona o un modo di esprimersi come nostratico, ordinario, civile. Dall’altro però, come per le parole “idiota” e “cretino”, ciò che è comune e popolare viene poi ad indicare soprattutto la banalità, o quantomeno una semplicità alquanto insipida, da cui non aspettarsi nulla se non il già sentito. Ed è così che la parola giunge al suo culmine, da cui non potrà che ridiscendere, ma dall’altro versante. Quasi come se anche la parola avesse oltrepassato le Alpi.
Sì, perché proprio nello stesso momento in cui il nostro vocabolo si allena ad una ginnica flessibilità semantica, i popoli un tempo stranieri, con la caduta dell’impero romano d’occidente, calano nelle terre in cui ormai da secoli il diritto e il latino sono lingua franca. Curioso gioco di parole, perché, tra questi, un popolo certamente importantissimo sarà quello dei Franchi. Come dicevamo, la parola, che un tempo aveva un significato sulla difensiva, ora sta diventando cifra dell’integrazione di ciò che di positivo c’è nel nuovo. Come cambiano le cose! Se prima “laìn“ era il concetto con cui ci si differenziava dai popoli germanici, tra cui si annidavano i Franchi, ora “laìn“ è diventato un concetto negativo, che significa non solo banale, ma anche debole, malfermo e cedevole. I popoli nuovi e vigorosi portano valore e capacità organizzativa che l’impero ha da qualche secolo dimostrato di aver perduto. Ora la tradizione delle legioni è astenica2, mentre le genti temprate dal freddo e non logorate dal compromesso sono capaci di portare autorevolezza e futuro. Ora è il contrario di “laìn“ ad essere il termine positivo: “franch“, franco, cioè stabile, schietto, solido, forte.
Testimone è Giovanni Barrella (1884-1967)3 di quanto il termine “laìn“, da termine orgogliosamente positivo, abbia ora assunto anche una forte connotazione morale negativa: chi è indiscriminatamente cedevole verso se stesso è frivolo e disinibito. La “franchezza”, invece, non è più sinonimo di ostilità, ma al contrario di sincerità spontanea e cordiale, forte, decisa e “tutta d’un pezzo”. Forse fu in questo frangente che i Milanesi divennero quelli che la saggezza lombarda dipinge con proverbiale ammirazione: “Quij de Milan, gh’hann el coeur in man“4.
- Un particolare fenomeno di indebolimento delle consonanti, come da matre a madre.
- Provata dal venir meno delle forze.
- Nella raccolta “I sonett del brumista” (1962), l’autore riporta l’equivoco comico tra l’attrice dell’epoca Dina Galli e il vetturino, che parla in prima persona: «Mì sont la Dina» (Sono la Dina), dice lei, e lui capisce «Mì sont ladinna (=laìna)» (Sono di facili costumi): al che, replica: «Gh’è nient de fà, / gh’hoo alter per el coo che dagh a trà» (Niente da fare, ho altro per la testa che darle ascolto). ↑
- = “Quelli di Milano, hanno il cuore in mano”. ↑
Riconoscimenti per l’immagine di copertina: A sinistra, Ptwo, Statua di Carlo Magno nel municipio di Hamburg; a destra, Egisto Sani, Valentiano II, museo archeologico di Istanbul. Sfondo, Nicolaus Germanus, Penisola italiana, Biblioteca Nazionale Polacca (Varsavia).