La prima pace

Un giorno, il suo primo giorno, un bimbo quasi vero conobbe Dio. Non fu un incontro casuale, poiché il creato stesso fin dall’inizio gli si presentò carico di quella pace che solo Lui può donare. Quando i sensi si scossero ed il teporoso silenzio primordiale lasciò il posto al lieto trillo del mondo, l’ipotetica vita si volse a cercare l’araldo di quel caldo appagamento. Proprio come gli antichi oranti, che per primi ruppero il silenzio con cui le terre adoravano il loro Creatore, anche il bimbo volse il cuore non alle stelle, ma a colei che custodiva il primo mistero. Lo specchio nel quale scorse Dio recava in sé le tracce di quelle veneri primitive, le cui giunoniche forme vollero dar carne alla donativa natura del Primo Amore.

Cullato da quelle braccia, il bimbo quasi vero innalzava ogni giorno la sua lode al Signore; non erano parole o suoni carichi d’arte, ma la semplicità di un cuore pienamente appagato dalla provvidenza del presente. La giovane possibilità tuttavia si rese ben presto conto che ciò che è perfetto per uno stato, può essere imperfetto per un altro. Mano a mano che il suo mondo si ampliava, si accorse che la semplicità di ciò che conosceva di Dio aveva bisogno, per crescere, di una complessità che il primo araldo non poteva dargli. Possibile, si chiese con gemiti, che la vastità del creato non possa in alcun modo dare corpo a quella pace?

Quell’intimo petto si accorse dei dubbi che attanagliavano il bimbo quasi vero e, sapiente come la vita di cui innalzava lo stendardo, orientò la sua vitrea superficie così da riflettere una diversa perfezione dell’Onnipotente. Fu così che un giorno quell’infante, che l’adulta memoria fa leggenda, si trovò su di un verde prato, carico improvvisamente di una libertà che solo l’ombra di materne ali rendeva meno amara.

L’ardore del despota

Quella rigogliosa distesa non era né vuota né silente, ma percorsa da altri possibili, a lui simili e diversi al contempo. Anche loro sembravano cercare la stessa crescita che lo muoveva, ed anch’essi si rivolgevano a quei beni minuti che sembravano poter aggiungere qualcosa all’antica pace; tuttavia, ogni voce era una diversa orazione, ancora distante dalla futura unità.

Il bimbo quasi vero colse non cosciente l’ironia della Provvidenza che, nel proporgli un’ascesa, gli presentava un gioco ove si saliva per poter scendere. Egli si avvicinò a quella piccola scala e, osservando la lunga lingua di metallo che si dipanava dalla sua cima, quasi afferrò la soavità di un Dio la cui conoscenza è salita che, sola, consente l’umiltà della discesa.

Ardendo per ciò che avrebbe capito, si accostò alla scala, ansioso di dare corpo a quella mistica intuizione. Fu lì che vide il tiranno. Non sembrava speciale nel corpo o nella mente, eppure tutte le infantili possibilità lì presenti scivolavano verso di lui come pioggia in una conca. Il bimbo quasi vero si chiese la ragione della sua diffidenza verso costui e trovò la risposta in ciò che da lui fluiva. Tutti coloro che si accostavano all’oggetto, vi giungevano con il desiderio di ascendere tramite la scala, un gradino alla volta, per poter discendere poi agevolmente verso la ritrovata e terrena umiltà. Il tiranno invece li costringeva a fare l’opposto: diceva loro di camminare sulla lingua d’acciaio e, una volta in cima, di scendere senza sfiorare neppure la scala.

Scorgendo le fatiche e le umiliazioni cui questa via conduceva, il bimbo quasi vero si chiese come quegli infelici si fossero convinti a seguirlo. Udite però le sue parole, comprese che la sfuggente grandezza del despota stava proprio nel suo discorso. Oh quale passione metteva nel presentare quella follia, quale ardore nel proporne l’audace novità, quale sottile veleno nel presentare quella faticosa scala come catena dell’animo! L’infante fu quasi convinto ad assaporare la deliziosa ambrosia del tiranno, al punto che anch’egli s’accostò all’inizio a quell’infernale salita. Ma quando il suo piede stava per calcare il liscio metallo, s’accorse dell’inganno. Nonostante tutti avessero condiviso l’iniziale impeto, nessuno presentava l’orgogliosa e paventata fierezza: c’era chi, scoraggiato, s’aggirava in attesa che l’altrui fallimento lo rincorasse; chi invece s’incaponiva nell’incapacità d’accogliere la follia dell’impresa e, infine, chi, vittorioso, nello scendere vanificava l’altrui sforzo, rendendo la discesa immagine non di umiltà ma di superbia.

Il bimbo quasi vero, disgustato, s’allontanò da quella follia, improvvisamente timoroso d’essersi reso in qualche modo impuro per essa. Vergognoso, cercò lo sguardo dell’araldo e, rincorato dal suo sorriso, notò un dettaglio: l’unico volto lieto era quello del tiranno, il cui piede non aveva mai calcato la perversa salita.

Accidia

Il bimbo quasi vero comprese che doveva fermare questo abominio, che non poteva essere quella la via per meglio comprendere la pace di Dio. Troppo forte era il tiranno per la sua voce, eppure infinitamente debole gli appariva l’infelicità che diffondeva attorno a sé. La giovane possibilità si rivolse allora alle vittime, comprendendo che erano loro a dare corpo a quel tremendo potere.

Egli tuttavia fallì: i vittoriosi, pochi e rabbiosi, non potevano ammettere che i loro sforzi fossero stati spesi per una causa perversa; coloro che s’incaponivano invece, appena più numerosi, rifiutavano di accettare che quel travolgente carisma non foss’altro che fumo e inganno, avvolti com’erano dalla loro arroganza. Il bimbo si rivolse allora ai più numerosi, alla gran massa di scoraggiati vinti dal fallimento; solo uno di questi gli rispose, dicendogli mestamente che erano tanto stanchi di lottare che mai avrebbero combattuto per deporre il tiranno.

Quell’infelice trono durò, nonostante gli sforzi della giovane ipotesi, finché lo concesse l’incerto tempo dei bambini. Eppure, quando da quel germoglio sorse un uomo quasi vero, la sinistra immagine di quella tirannide assunse toni ben più universali. Tanti infatti sono i despoti che il fu bambino trovò nel mondo, e sopra tutti quel Principe indegno le cui fauci mai più assaggeranno il Cielo. Egli rimaneva sempre affascinato dal loro potere, dalla loro magnificenza, non negata neppure da quei pensatori che ne mostrarono l’infelicità. Eppure tutta la loro forza si basava sempre su di un vuoto: quei despoti, dal bimbo ardente fino al serpente antico, regnano sulla desolazione lasciata dal vero nemico dell’uomo, cioè l’accidia. Quanto facile sarebbe rovesciare i loro scranni, se solo si accettasse il dolore della lotta! Ma la pigrizia ci sottrae il futuro, lasciandoci in un presente senza speranza nel quale ogni croce ci appare desolata come un sepolcro chiuso.

Ripensando a quel piccolo tiranno, l’uomo quasi vero si rende conto di come Dio insegni nei paradossi: se nel morire lottando c’è la vita, allora chi si dice uomo deve aspirare a quella dolorosa fine, piuttosto che a sparire nell’ovattato silenzio che circonda i troni dei tiranni.

Questo articolo è dedicato al mio araldo ed alle sue parabole.

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fr. Giuseppe Filippini
Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it

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