Gesù ha detto: “Non temete“[1], “Perdonate“[2], “Non giudicate“[3]; e a ragione questi comandi sono diventati altrettanti argomenti di predicazione; ma tra tutti gli imperativi del vangelo, quello più trascurato è un altro: “Guardate“[4]. La bontà dei sensi, che ci aprono al mondo creato da Dio, non è sempre stata compresa: il primo martire domenicano, fra Pietro, morì proprio per difendere la fede nel Dio buono, Creatore e Signore del cielo e della terra. Ambrogio, dal canto suo, ha scritto pagine memorabili che ci testimoniano il fatto che la bellezza della creazione e il saperla gustare sono vie di comunione con Dio.
Innanzitutto lo sono perché ci liberano dall’ansia del cerebralismo: i Suoi pensieri non sono i nostri pensieri[5], e per quanto ci impegniamo, non possiamo rendere bianco o nero un solo nostro capello[6]. Il sapiente ordinamento dell’universo invece, “plasmato dalla Provvidenza divina”[7], ci presenta una realtà che stupisce e ammaestra: ci libera dalla superbia di abbracciare e conoscere tutto, per abbandonarci umilmente alla squisitezza del particolare, in cui è presente l’azione e la gloria di Dio. Un grande ambrosiano diceva: “Il mondo del superfluo non è affatto superfluo per l’uomo”[8]. Ma questo era già l’atteggiamento di sant’Ambrogio:
“Iddio non prova fatica nel creare gli esseri più grandi né disdegno nel creare quelli più piccoli. (…) Conta, se puoi, le specie di tutti gli esseri che abitano le acque, sia dei più piccoli sia anche dei più grandi: seppie, polipi, ostriche, gamberi, granchi, e fra questi gli innumerevoli esemplari di ciascuna specie. (…) La murena (…) è un cibo squisito. (…) La rana (…) non manca d’una sua eleganza, e in bontà supera quasi tutti i cibi (omnibus fere praestat alimentis). Se uno vuol sapere di più, si informi dai vari pescatori dei luoghi: nessuno infatti può conoscere tutto”[9].
Chi ha buon gusto si salva: non solo perché “il vino bevuto con sobrietà contribuisce alla salute e accresce il discernimento”[10], ma anche perché la capacità di cogliere le sfumature della bontà, unita alla fede, va di pari passo con la finezza dello spirito e l’amabilità di relazione:
“Mi hai mandato dei tartufi, e per giunta di grana enorme, così che le loro inusitate proporzioni lasciavano a bocca aperta. (…) Bada però di non trovare in avvenire “grane” più grandi di queste che ti facciano soffrire. (…) Però (…), quantunque questo tuo scusarti mi rechi dei vantaggi, ti fa fare una brutta figura, né migliore la farebbe fare a me, se tu credessi di compensare la tua assenza con regali”[11].
E se è vero che “ogni spirito che non riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, non è da Dio”[12] perché “come è Lui, così siamo anche noi, in questo mondo”[13], il padre dell’ottimismo teologico, col suo virtuosismo retorico, ci inietta l’antidoto all’anticristo con l’ode a un buon secondo piatto:
“Nel mio elencare non lascerò senza lusinghiera menzione te, o trota Timo (témolo), cui ha imposto il nome un fiore. Quanto che sia la fluviale onda del Ticino a nutrirti, come che lo faccia l’onda dell’ameno Adige, un fiore tu sei. (…) Cosa c’è di più soave del tuo sapore (Quid suavitate [tua] iocundius)? Che cosa più fragrante del tuo profumo? L’aroma di cui sono sapidi i mieli, tu dal tuo corpo propaghi”[14].
È per questo che il decano dei dottori della Chiesa non ci sta allo spiritualismo dei “buoni pensieri”, ma canta la sua spassionata lode al Dio della vita:
“Con affetto di padre, Isacco disse: «L’odore di Giacobbe è odore di campo rigoglioso», cioè odore naturale. (…) Anche se qualcuno prima di noi[15] ha detto acutamente: «Il patriarca non odorava di vite o di fico o di messe, ma olezzava dell’attrattiva delle virtù», io tuttavia, per l’affetto che ispirava quella benedizione, intendo anche l’odore stesso della terra, semplice e sincero, non manipolato da nessun artificio, ma infuso dalla celeste benevolenza. Anzi, tra le benedizioni considerate più sacre, una invoca che il Signore dalla rugiada del cielo conceda abbondanza di vino, d’olio e di frumento. A lui onore, lode, gloria, eternità dai secoli e ora e sempre e per tutti i secoli dei secoli. Amen”[16].
[1] Gv 6, 20
[2] Cfr. Mt 6, 14
[3] Mt 7, 1
[4] Mt 6,26
[5] Cfr. Is 55,8
[6] Cfr. Mt 5,36
[7] Sant’Ambrogio, Exameron, V, 64. [N.d.R.: Le meticolose e gustose traduzioni dei testi ambrosiani sono a cura dell’autore dell’articolo]
[8] Card. Giacomo Biffi, Quando Ridono i Cherubini
[9] Sant’Ambrogio, Exameron, VII, 5.6.
[10] Sant’Ambrogio, Exameron, V, 72.
[11] Sant’Ambrogio, Lettera 43 (A san Felice).
[12] Cfr. 1Gv 5,2-3
[13] 1Gv 4,17
[14] Sant’Ambrogio, Exameron, VII, 6.
[15] Il dotto ebreo Filone d’Alessandria.
[16] Sant’Ambrogio, Exameron, V, 72.