Un uomo nel deserto

Cari lettori, come vi avevo promesso cercherò in queste pagine di utilizzare i frutti della riflessione fatta sulle tre pellicola dirette da Ridley Scott, ossia Alien, Prometheus e Alien: Covenant, come base per una meditazione capace di nutrire la nostra vita di cristiani. Comprendo bene che per quelli di voi che abitualmente seguono questa rubrica, un simile concetto sarà abbastanza noto; tuttavia sento il dovere di ribadire che una simile operazione non è un’indebita appropriazione o distorsione dell’altrui pensiero artistico, né una banalizzazione dei contenuti di fede. Si tratta invece di uno dei più alti privilegi del discepolo di Cristo, ossia di potere, in virtù della libertà che gli è propria, cogliere e godere della verità ovunque essa si trovi. Ciò naturalmente è possibile alla luce dell’intelligenza della fede che, se accolta ed utilizzata con umiltà, consente di vedere ogni realtà nel rapporto che intrattiene con l’Eterno. Mi sia quindi consentito dire che se un san Francesco d’Assisi, in virtù della santità che gli era propria, poteva contemplare un riflesso di Dio anche da un’umile alba noi, dal basso della nostra miseria, possiamo perlomeno tentare con un semplice prodotto dell’ingegno umano. Detto questo, chiunque di voi si sia perso il precedente articolo, lo può recuperare con questo link.

Venendo a noi, la tremenda visione dell’uomo e della sua libertà emersa dalla riflessione sull’opera di Ridley Scott suona al credente tanto desolante quanto familiare. Anche se la società occidentale è erede di una cultura che ha tentato, in diversi modi, di porre la ricerca del bene dell’umanità come fondamento della morale, oggi questa spinta, pure ancora forte in molti ambiti, risulta sempre più difficile da fondare. Senza entrare nel merito di pensieri e filosofie la cui complessità esula l’obiettivo e la natura di questo scritto, possiamo dire che le diverse forme di relativismo in campo morale nascono proprio dalla difficoltà di rintracciare un bene oggettivo e sommo cui l’uomo in quanto tale possa appellarsi in ogni luogo e tempo.

Ciò che lega questi due elementi è la natura stessa del bene: esso è, prima di tutto, un qualcosa di desiderabile, la cui acquisizione consente alla creatura di persistere e di giungere alla sua perfezione. Ecco che quindi il bene sommo altro non è che l’oggetto o la condizione massimamente ambita, nella quale un essere vivente giunge alla sua completezza realizzando ogni suo desiderio. Così facendo egli non perde la spinta a vivere, come se l’esistenza fosse necessariamente legata al desiderare, ma anzi raggiunge quella pace che è appagamento di tutto l’essere. Va da sé allora che ogni sistema morale che intenda, distinguendo il bene dal male, costituirsi come una guida in questo percorso di perfezionamento dell’uomo, non può esimersi dall’identificare una meta, un luogo di pace dell’esistenza umana che funga da fine.

Se si esclude l’esistenza di questa condizione ultima, la morale perde il suo fondamento e potrà svilupparsi solo in due direttrici principali: quella appunto relativista, che riduce il bene sommo all’espressione della volontà di un singolo o di un popolo, e quella che possiamo definire di negazione, che rifiuta la possibilità ed il senso stesso di un fine ultimo, relegando l’agire umano ad una libertà tanto assoluta quanto terrificante.

Mi rendo conto che sto semplificando moltissimo concetti e questioni estremamente complesse ma penso che, facendo la tara all’estremizzazione narrativa posta in essere, tale situazione sia quella esplicitata dai tre film che abbiamo analizzato. Se il relativismo, sotto lo sguardo spietato della pura ragione degli androidi, si rivela essere nulla più che un’illusione, la via di negazione diviene, per necessità, il fondamento dell’unica libertà possibile, ossia l’accettazione dell’assenza di ogni sentiero sul nostro cammino che lo xenomorfo rappresenta.

Forse un piccolo esempio può aiutarci a comprendere quanto tremenda sia la scelta fra queste due opzioni. Immaginiamo di essere un uomo perso nel deserto: ogni nostra azione e pensiero sarà mosso dal desiderio di soddisfare la tremenda sete che ci attanaglia; tuttavia non solo non conosciamo esattamente la direzione verso la città più vicina, ma non sappiamo neppure se, nel limite dei chilometri che potremo percorrere prima di morire, vi sia effettivamente un centro abitato dove trovare soccorso. Immaginiamo di non riuscire a scoprire alcun riferimento oggettivo che possa permetterci d’impiegare bene le nostre forze; ci si aprirebbero due opzioni: da un lato, potremmo convincerci, magari sulla base di ragionamenti o conclusioni soggettive, che la salvezza sia trenta chilometri a nord ed investire nel viaggio le nostre forze. Naturalmente non arriveremo mai a bere neppure un sorso d’acqua così facendo, ma vivremo i nostri giorni razionando le poche risorse e faticando sorretti da quest’illusoria speranza. Dall’altro, potremmo accettare sin da subito l’idea che qualunque speranza è infondata: a quel punto saremmo totalmente liberi, poiché nessuna azione avrebbe senso di per se stessama solo in quanto fatta da noi. Ecco che quindi, in attesa di morire, potremmo, nella più totale indifferenza, tanto consumare tutte le risorse rimanendo fermi sul posto quanto cercare di vivere il più possibile per vedere gli splendidi tramonti del deserto.

La meraviglia della montagna

Il cristiano non può che guardare con compassione i fratelli e le sorelle che, come l’uomo nel deserto, sono presi fra queste due tremende alternative. La serenità che tale stato d’animo suppone nasce, nel credente, dalla certezza che per quanto vicina a lui sia l’aridità di quelle sabbie, la fede lo pone in un’oasi sicura. Chi ha accolto la chiamata di Dio infatti ha trovato nel Signore un solido baluardo1, un rifugio non costruito sulle sabbie2 dell’illusione ma sulla roccia della Verità. Il suo intelletto non viene ingannato o svilito dalla Rivelazione, bensì aperto dalla luce della fede ad un Bene Sommo che è Alfa ed Omega3, Via e senso della Vita4.

Di fronte alla consapevolezza di quanto immenso sia il fardello da cui l’atto di fede solleva, si sarebbe tentati, sull’onda dell’onnipresente tendenza gnostica, a pensare che raggiungere questa intelligenza illuminata sia il frutto di un difficilissimo percorso, il premio riservato ai pochi capaci di scalare la mistica montagna. Eppure la realtà ci mostra come l’atto di fede sia, umanamente parlando, semplicissimo; chi fra voi ha vissuto l’esperienza della conversione sa bene che quell’incredibile svolta della sua vita sbocciò dalla semplicità di un sì, da un assenso che nella banalità dell’atto aprì le porte agli infiniti frutti dell’Eterno. Ecco che quindi una delle domande più pressanti, e solo apparentemente sciocche, che il credente si pone è perché sia tanto difficile, anche per uomini e donne sinceramente alla ricerca di Dio, donare quel semplice consenso.

Non pretendiamo certo che un’umile saga di fantascienza risponda ad un simile quesito; tuttavia, in linea con la nostra riflessione, proviamo a vedere se può suggerirci qualche spunto interessante. Se, come abbiamo visto, lo xenomorfo altro non è che il distorto tentativo di creare un uomo davvero libero, secondo le conclusioni cui l’androide David è giunto, e se tali risposte, come sappiamo per fede, sono sbagliate, allora la radice dell’errore si trova in colui dal quale il robot ha imparato, ossia il signor Weyland5. Nella scena che abbiamo già commentato vediamo che Peter Weyland è certamente un uomo illuminato: egli rifiuta ogni ottusa negazione del divino e si rende conto di come l’essere umano, nella sua unicità ed evidente sovranità, non solo non può essere solo frutto del caso ma solleva anche il resto della creazione da questa oscura origine. Anche se il personaggio, nel dialogo in questione, non parla mai esplicitamente di Dio, la sua convinzione che l’ingegno umano ed i suoi frutti non possano che venire da qualcuno o qualcosa di simile lo apre, perlomeno implicitamente, all’accoglienza dell’Onnipotente. Tuttavia la sua vicenda, narrataci in Prometheus, 6ci mostra come questa ricerca l’abbia condotto in un sentiero senza sbocco, in una via tanto lontana dalla Verità da fondare e giustificare la disperazione. Siamo quindi di fronte ad un altro paradosso: un uomo intelligente e potente, mosso da un genuino desiderio di rispondere alle più alte domande dell’umanità, non è riuscito né ad udire né a rispondere con un sì a quella chiamata che individui ben più semplici e piccoli hanno con facilità accolto.

Il problema non sta tanto nelle forze impiegate per la ricerca o nella costanza con cui la si affronta, bensì su come si concepisce l’oggetto da trovare. Per farvi un esempio, se un amico smarrisse il suo cane io, nell’aiutarlo a ritrovarlo, cercherei tutti i segni tipici del passaggio di quell’animale, come tracce di urina e persone che possano averlo udito abbaiare. Se invece lo stesso amico avesse perso un gatto, presterei occhio a segni di graffi sui tronchi e sorveglierei quei luoghi dove i randagi vengono nutriti. La ricerca di Dio funziona in modo simile: a seconda di come si concepisce l’Onnipotente, si tenderà ad aprirsi a determinate forme di chiamata, a considerare specifici aspetti della sua presenza, ad attendersi certi risultati e non altri.

Ora, solitamente la nostra ricerca di Dio, oltre che sul viscerale e nebuloso bisogno di Lui che pervade l’esistenza di ogni uomo, si radica e s’incarna in degli elementi i quali, nella comunione che nasce dalla meraviglia, ci parlano di qualcosa d’oltre il comune esperibile. Ad esempio, chi contempla la maestosità del mare in tempesta o la solennità di una montagna può, se si apre a tali caratteristiche, percepire la meraviglia per una potenza che lo trascende e, da questa base, iniziare a cercarne l’origine profonda. Nel caso di Weyland questa meraviglia nasce dal riconoscimento della potenza umana; egli esprime chiaramente tale pensiero tanto nell’orgoglio di sentirsi creatore quanto nella convinzione che proprio la magnificenza delle opere dell’uomo renda impossibile che suo solo padre sia il caso7.

Si potrebbe pensare che il punto di partenza di Weyland e quello proposto nell’esempio si equivalgano, che siano allo stesso modo dei validi primi passi per volgersi a Dio, ma non è così. C’è una differenza di fondo che va messa in risalto: se da un lato la meraviglia sorta dalla maestosità di una montagna parla necessariamente di qualcosa o qualcuno che supera le forze dell’uomo, trascendendo l’uomo stesso, dall’altro la superba immagine della nostra stessa potenza non richiede necessariamente il riferimento ad un altro che ci sia superiore. Ciò che voglio dire, in parole povere, è che la potenza del mare parla per forza di cose del divino, per il semplice fatto che si tratta di un’opera la cui grandezza esula abbondantemente dalle nostre capacità di generare e controllare; d’altro canto la nostra gloria non necessariamente si volge a Dio, poiché può essere vista tanto come dono quanto come il frutto di un agire che rientra nei nostri limiti.

Dono del Signore sono i figli

Quello che Weyland cerca non è una Causa Prima che dall’alto della Sua Onnipotenza fondi la nostra magnifica forza, bensì qualcuno che ci sia certo causa ma senza trascenderci. Si potrebbe dire che quest’uomo non cerca Dio, bensì un Io, un alter ego potente ma non trascendente capace di rispondere alle sue domande.

In un certo senso, si tratta di una situazione simile a quella narrata nel Secondo Libro dei Re, nel celebre episodio di Naaman il Siro8: così come il generale biblico si recò da Eliseo non cercando, perlomeno inizialmente, l’intervento di Dio, la cui Potenza non necessita di segni grandiosi, bensì l’umana e magica forza del profeta, così Weyland non spese la sua vita alla ricerca di un Signore tanto grande quanto semplice da trovare ma seguì le tracce del superuomo che aveva immaginato. Nessuna sorpresa quindi che un simile cammino, alla fine, l’abbia portato semplicemente a contemplare un più grande monumento alla miseria umana, lasciando a lui ed alla sua prole semplicemente desolazione.

Un’altra conferma di dove Weyland cercò, errando, un segno della grandezza di Dio lo troviamo nella curiosa conflittualità, presente in Prometheus, fra David e la figlia naturale dell’uomo, ossia Meredith Vickers, interpretata da Charlize Theron. L’innaturale orgoglio paterno che l’ormai anziano imprenditore rivolge all’androide, segno visibile di quell’umana potenza che venera, è ben equilibrato dall’indifferenza verso la sua vera prole, comune frutto della banalità della generazione.

Tutto ciò ci permette di giungere ad una conclusione: l’uomo che cerca Dio, se davvero vuole trovarlo, deve comprendere come cogliere le scintille del Divino sparse nella sua esistenza. Esse non brillano laddove la nostra potenza, fisica, mentale o sociale, riesce ad elevare templi al nostro orgoglio, bensì in quelle opere ed i quei luoghi dove maggiormente risalta la nostra piccolezza. Non si tratta tanto di aspirare a quel genere di umiliazioni che ci strappano la dignità con dolorosa violenza, bensì di cogliere la bellezza di quei santuari dello spirito ove dallo splendore di ciò che ci trascende, che totalmente ci supera, traiamo la vera Luce nella quale diveniamo preziosi come pietre rare. Se allora la travolgente potenza del mare può elevarci nel contemplare quanto immensa sia la forza di Colui che domina con eguale facilità noi e lui, ancor di più la miracolosa banalità della generazione deve sconvolgerci, spiazzarci nella rivelazione di come l’infinito Amore di Dio tragga dalla rozzezza del nostro amare il miracolo d’un uomo.

Lungo è stato il percorso di questa riflessione e forse troppo alto per le umili ali di cera che ho indossato. Ciò che tuttavia ha lasciato in me, e che spero abbia preso dimora anche in voi, è una sana premura, un’amorevole raccomandazione sulla quale umilmente meditare. Si tratta in fondo dell’ennesima domanda, cui però non spetta necessariamente una risposta, ma solo un paziente rimuginio. Che volto ha il Dio che cerco? Non si tratta tanto di chiedersi come immaginiamo il Signore, bensì dove scorgiamo le tracce del Suo tocco. Se infatti, a prescindere dal fervore della nostra pratica religiosa, sarà nel limitato spettro dell’io, nel grigio mondo della superbia che cercheremo Dio, allora ciò che troveremo ci deluderà. Presto o tardi finiremo per ritenerlo anche noi un’illusione, il patetico inganno d’un infante terrorizzato di fronte al vuoto in cui sente galleggiare la propria esistenza. Il frutto della nostra disperazione sarà allora, che ce ne rendiamo conto o meno, o la vuota e tragica invidia di coloro che riteniamo stolti o, ancora peggio, un non-uomo che darà all’animalità bramata un sapore diabolico.

Se invece cercheremo di vedere le orme di Dio fuori da noi stessi, in quei luoghi dove la grandezza passa attraverso la sublime umiliazione della Carità, allora sapremo rinnovare con semplicità di cuore il nostro sì o, se oscuri erano stati i nostri passi, pronunciarlo per la prima volta, rompendo quel silenzio dove ogni grido è vano fra i sordi. Allora e solo allora ci accorgeremo di essere liberi.


1 Cf Sal 94, 22.

2 Cf Mt 7, 24-29.

3 Cf Ap 22, 13.

4 Cf Gv 14, 6.

5 Chi di voi ha letto la Parte 1 di questo articolo sa bene di chi sto parlando; in ogni caso, il film di riferimento è Alien: Covenant, diretto da Ridley Scott nel 2017.

6 Anche in questo caso, per chi non avesse recuperato la Parte 1, ripeto che si tratta della pellicola diretta nel 2012 da Ridley Scott, primo dei due capitoli prequel.

7 Ecco le parole di Weyland: «All this wonders of art, design, human ingenuity, all utterly meaningless in the face of the only question that matters: where do it come from? I refuse to believe that mankind is a random byproduct of molecular circumstances, no more than the result of mere biological chance; no! There must be more».

8 Cf 2Re 5, 8-14.

Non perderti nessun articolo!

Per restare sempre aggiornato sui nostri articoli, iscriviti alla nostra newsletter (la cadenza è bisettimanale).

fr. Giuseppe Filippini
Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here