La spezia di un lungo viaggio
Quando si propone un testo alla lettura di qualcuno bisogna sempre considerare sotto quale aspetto lo si offre. Difatti qualunque libro, sia esso un saggio o un’opera di letteratura, può giovare in modi diversi a seconda di chi ne fruisce, rendendo il consiglio differente per finalità.
Questo discorso potrà apparire ozioso, tuttavia risponde ad una questione che tutti coloro che intendono condividere con altri le proprie letture dovrebbero porsi. Ciò che spinge qualcuno ad accogliere il cortese invito di un lettore non sono tanto le sue argomentazioni, né ciò che di buono è derivato dal testo, bensì la passione che si percepisce nelle sue parole. Non parlo solo di quella emotiva, rara in alcuni tipi di scritti, ma anche di quella intellettuale che testimonia i frutti che la lettura ha dato all’anima. Tuttavia questa passione non è mai rivolta verso tutti gli aspetti del libro, ma sempre verso alcuni di essi; anche cioè se si conoscono, per esempio, tutti i contenuti di un saggio, saranno solo alcuni di essi ad alimentare quella scintilla presente in noi e che, sola, comunicheremo. Ecco che quindi nel momento in cui faccio a qualcuno la mia proposta, devo essere consapevole di quale delizioso sapore userò per solleticare il mio interlocutore.
Questa è la domanda che mi sono fatto quando ho deciso di proporvi la lettura dell’Odissea1, opera celeberrima attribuita al leggendario Omero ed espressione di una cultura che costituì il germe dell’Occidente. Siamo stati abituati a considerare questo poema, così come molti altri classici, solo come un oggetto di studio, un testo da toccare con i guanti e per il quale, al posto di una fruizione diretta, è bene preferire un esame distaccato. Sia bene inteso, non voglio svilire il lavoro che le varie discipline hanno svolto nei secoli, né intendo sottovalutarne l’importanza; il mio scopo è solo porre in rilevo il fatto che l’approccio accademico, se presentato come necessario al lettore impreparato, finisce per rompere quel virtuoso circolo, che naturalmente si forma fra testo ed utente, che consente all’uno di riflettersi ed arricchirsi nell’animo dell’altro.
Ciò che quindi v’invito a fare è leggere non sull’Odissea ma l’Odissea stessa; provate cioè a gustarvi quel sapore intimo che ogni testo possiede e che si costruisce in comunione col lettore e non a prescindere da esso. Così facendo non sarete forse degli esperti del poema omerico, ma l’avrete fruito secondo quello stesso principio di libertà con il quale i nostri antenati lo accolsero e per il quale se ne innamorarono.
Il sogno d’un verso
Per disporsi efficacemente e coscientemente a cogliere questo aspetto del testo, che potremmo definire simbiotico, è utile ricercarne la bellezza. Gli antichi rimanevano estasiati dai versi di Omero e noi lettori comuni, che non possiamo goderne l’aulicità nella lingua originale, non abbiamo bisogno di traduzioni filologicamente esatte, ma poeticamente valide. Questo è il motivo per cui, in nota, vi ho riportato una delle tante edizioni della celebre traduzione dell’Odissea realizzata da Ippolito Pindemonte: questo testo non solo fa riecheggiare, nella nostra lingua, lo splendore della poesia omerica, ma risponde sottilmente a quel recondito desiderio che i libri della scuola dell’obbligo, perlomeno ai miei tempi, saggiamente cercavano d’instillare attraverso il fascino della penna del poeta veronese.
Giunto a questo punto, mi rendo conto di due cose: da un lato sarebbe vano riportare qui di seguito la sin troppo nota trama delle avventure di Ulisse; dall’altro può essere utile mostrarvi con un esempio pratico quel tipo di ricezione attiva di cui vi ho parlato. Essendo frutto della mia esperienza col testo, non pretende di essere scientificamente fondata, ma solo frutto di un ascolto che spero sia stato attento ed arguto.
Desiderio o desiderante
Leggendo le avventure ed i viaggi di Ulisse e di Telemaco, mi sono reso conto che quasi in ogni incontro l’accento cade primariamente su di un aspetto inaspettato: l’ospitalità. Anche se queste imprese non mancano di elementi meravigliosi, spesso ansiosi di colpire la fantasia del lettore con particolari macabri e straordinari, essi sono semplicemente degli orpelli, il cui scopo non è di avere dignità propria, ma di porre in risalto ciò che è davvero sostanziale.
Accogliendo l’opera sotto questo aspetto, ci si rende presto conto che le diverse e fantastiche situazioni che propone sono altrettante parti di una vasta casistica definente l’identità dell’ospite ed i diversi diritti e doveri cui sia lui che la parte ospitante vanno incontro. Un tale complesso di costumi e norme sociali non ha lo scopo di delineare un’etichetta fine a se stessa, ma di proporre una visione delle relazioni interpersonali fondata non sul possesso ma sulla gratitudine. Il testo non si limita a presentare modelli umani di comportamento, ma cerca un fondamento divino: è Giove2 stesso che si fa garante ed accompagnatore dell’ospite, arrivando a trasferire, per partecipazione, il suo personale prestigio all’ospite stesso.
Restringendo il campo, possiamo dire che l’ospitalità sana viene definita preliminarmente attraverso due esempi negativi e reciprocamente opposti. Da un lato abbiamo il caso di Polifemo, il bruto, che non solo rifiuta allo straniero il necessario, ma ne fa una risorsa attraverso l’empia abitudine dell’antropofagia3; dall’altro abbiamo Calipso, la bella ninfa, la cui eccessiva donazione nell’ospitalità finisce per diventare una prigione per l’ospite stesso4. Tali esempi negativi consentono d’individuare nel possesso il germe che intacca la buona ospitalità: anche se in modo differente, sia Polifemo che Calipso hanno visto nel povero Ulisse una risorsa da possedere e non un interlocutore da legare amichevolmente a sé con la gratitudine di chi si vede sollevato da una difficoltà. La consapevolezza della reciprocità del dialogo fra ospite ed ospitante, pur presente in tanti personaggi dell’opera, viene definita da Menelao, re di Sparta, il quale pone in evidenza la necessità di comprendere i desideri dell’ospite senza strumentalizzarlo5.
Astraendo il messaggio dal contesto culturale nel quale è inserito, è possibile leggere nella gratitudine un indizio della corretta e sincera vita di carità. L’incontro con l’altro, specie quello animato da benevolenza, non deve mai prescindere dalla sua individualità, dalla sua risposta, poiché anche il più grande gesto d’amore ha come fine quello di costruire un legame; questo non è indizio di un animo interessato, ma della volontà di beneficiare l’altro nella sua interezza e quindi di accogliere anche la sua risposta. Interessante infine notare come questo profondo atto d’umiltà da parte dell’ospitante, ossia il piegarsi alla reazione dell’ospite, sia attribuito a Giove, la cui divinità viene quindi implicitamente definita attraverso la virtù dell’umiltà.
1 L’edizione usata e suggerita alla lettura è Omero, Odissea (trad. Ippolito Pindemonte), Newton Compton Editori, Roma 2016.
2 Il lettore mi scuserà per l’uso dei nomi latini delle divinità olimpiche: pur essendomi noto l’originale greco, ho deciso, per coerenza, di mantenere anche nell’articolo la scelta fatta da Pindemonti nella traduzione consigliata.
3 «Ah! Temi o potentissimo gli Dei:\ che tuoi supplici siamo, pensa, e che Giove\ il supplicante vendica, e l’estrano,\ Giove ospital, che l’accompagna e il rende\ venerabile altrui.» Cfr. Odissea (ed. cit.), L. IX, vv. 540-544.
4 «Pensoso, inconsolabile, l’accorta\ Ninfa il ritiene e con soavi e molli\ parolette carezzalo, se mai\ potesse Itaca sua trargli dal petto: […].» Cfr. ibidem, L. I, vv. 81-84.
5 «Odio chi suole\ gli ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo\ spregiarli: il meglio sempre è star nel mezzo.\ […] Carezzalo indugiante, e quando scorgi\ che levarsi desìa, dagli commiato.» Cfr. ibidem, L. 15, vv. 85-92.