Il Cavaliere dalla Trista Figura

Quando si parla di un’opera tanto famosa come il Don Chisciotte della Mancia1 di Miguel de Cervantes Saavedra i rischi che un umile lettore come me corre sono due: da un lato può insuperbirsi al punto dal pensare di poter rivoluzionare secoli di critica al testo con la sua sola opinione; dall’altro può umiliarsi fino a credere che la lettura completa ed attenta dell’opera da lui compiuta sia cosa comune e condivisa da tutti. Per evitare di cadere in questi due errori ricorrerò ad altrettanti stratagemmi: riguardo al primo, intendo limitarmi a proporvi la mia lettura di un singolo aspetto della vicenda, poco più di un’umile invito alla meditazione; a proposito del secondo invece mi riprometto d’introdurre l’opera con alcune scarne righe che richiamino alla memoria del lettore le antiche nozioni lasciate dalla scuola dell’obbligo.

Il Don Chisciotte fu scritto a due riprese dallo spagnolo Miguel de Cervantes fra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo ed ha il dichiarato scopo di parodiare un genere allora estremamente diffuso in Europa: l’epica cavalleresca. Definibile, a grandi linee, come una bizzarra fusione fra il fantasy odierno e la canzone popolare, questo genere letterario proponeva avventure e personaggi tanto memorabili quanto improbabili e, per la sua natura semi-orale, finiva per dar vita ad intricate ed assurde geografie e società immaginarie. Il buon Alonso Chisciano, un piccolo proprietario terriero castigliano cortese e ben voluto, grande conoscitore ed appassionato di epica cavalleresca, un giorno perde il senno e si convince che le fantasie del suo mondo letterario siano vere e mascherate dagli artificiosi inganni di una realtà fin troppo banale. Cambiatosi nome in Don Chisciotte e trovatosi uno scudiero nell’ingenuo contadino Sancio Panza, Alonso si mette in viaggio con lo scopo di far risorgere l’immaginario Ordine della Cavalleria Errante.

Quando il mondo non basta

Leggendo la corposa opera di Cervantes una domanda risuona continua ma inascoltata non solo nella mente del lettore ma anche fra gli stessi personaggi proposti: come può un uomo saggio come Alonso essersi tramutato nel folle ed ingenuo cavaliere? Il narratore infatti non propone un personaggio completamente imbruttito dalla follia, bensì un individuo che sembra avere con essa riempito solo uno specifico vuoto della sua vita, lasciando quasi intatto il resto. Inutilmente si cerca una risposta a questa domanda finché, quando il lettore ha ormai perso le speranze, un indizio emerge proprio nel momento meno opportuno.

Alla fine dell’opera infatti il cavaliere incontra, sotto il travestimento di un misterioso sfidante, un suo caro amico il quale, deciso a farlo desistere da questa sua folle vita, lo sfida a duello pretendendo, in caso di vittoria, la possibilità di relegarlo ad un anno di fermo dalle attività di cavalleria. Inutile dire che le cose vanno proprio così e Don Chisciotte, deluso ed amareggiato, torna alla sua casa; qui, dopo un improvviso malore, egli rinsavisce e, sul letto di morte, rinnega come falsità e follie tutte le sue imprese ed idee precedenti. Infine, distrutto dall’amarezza e dalle delusioni ma lieto di essere libero, Alonso muore cristianamente nel suo letto.

L’elemento su cui vorrei concentrarmi è la concomitanza fra la sua sconfitta, la prima palese nella storia, e la sua guarigione: sembra quasi che la “cura” alla sua follia non stesse tanto in un’evidenza facile da rifiutare per un pazzo, quanto in una penetrazione della realtà stessa attraverso le nebbie dell’immaginazione. Essendo la romanzata vita dei cavalieri erranti quasi sempre salva dalle sconfitte, ed avendone Don Chisciotte subìta una inserita nello stesso folle contesto a lui abituale, questa ha avuto come il potere di far gradualmente cadere il sogno, rivelandone l’inconsistenza.

Se questa era la cura, allora la malattia non era tanto un’incapacità patologica di distinguere il reale dall’immaginario, quanto l’inconscia scelta di velare la realtà con quelle splendide fantasticherie che l’abbellivano come un manto regale.

Una tragica fame di bene

A ben vedere, ciò che ha sempre caratterizzato Don Chisciotte, prima, durante e dopo la parentesi cavalleresca, è una vita virtuosa, tanto che l’epiteto che il suo vero io ha meritato è quello di “il Buono”. Personalmente mi appare quindi plausibile che durante i lunghi anni di letture cavalleresche, il povero e cortese Alonso Chisciano abbia rivolto verso di esse, e verso i modelli da esse proposti, la sua ricerca di una vita veramente virtuosa. Non riuscendo a trovare forse nella realtà quei modelli di vita buona che cercava, il gentiluomo si sarebbe rivolto a quelli immaginari della letteratura. Ecco però il problema: un bene immaginario si fonda su di un mondo immaginario, senza il quale esso non può sussistere; il passo successivo quindi, dettato forse più dalla disperazione che da una scelta ragionata, è stato quello di abbracciare quel mondo capace di dare corpo a quei meravigliosi modelli. Se ciò è vero, si spiega la guarigione finale: quando un elemento inserito apparentemente nell’immaginario finisce per negarlo, del tutto o in parte, allora la stessa esistenza di quel manto diviene contraddittoria e quindi da rifiutare.

Ora, fatemi per un attimo la carità di dare credito a questa lettura: parziale conferma la potremmo trovare nel rammarico finale di Alonso che, sul letto di morte, lamenta di non aver avuto, a causa dei romanzi cavallereschi, il tempo di dedicarsi a letture cristiane che potessero illuminargli l’anima2. Egli qui sembra rendersi conto del suo peccato, ossia di aver cercato in opere di fantasia quella proposta di vita santa che il suo malinconico sguardo sul mondo gli impediva di scorgere nella realtà. Assumendo ed imitando dei modelli utopisticamente positivi, Alonso è stato costretto non solo a negare il reale, almeno finché ha potuto, ma anche a spendere energie e risorse inseguendo fantasmi e miraggi. L’avere cioè rifiutato la miseria del mondo, e quindi la piccolezza della carità umana, l’hanno spinto, ponendosi ideali troppo alti ed immaginosi, a rinunziare a qualunque reale occasione di vivere quella carità tanto cercata.

Non voglio dilungarmi troppo né propinarvi una meditazione troppo personale sul tema; mi limito a concludere con un invito, rivolto a voi ed a me: quante volte, pur di non scorgere la miseria che spesso accompagna il bene a noi accessibile, lo sostituiamo con modelli talmente elevati da avere l’unico scopo di giustificare la nostra inazione? È possibile cioè che chi volge lo sguardo dalle piccole opere che il Signore gli propone si stia già godendo l’apparente conforto della sua pazzia?


1 L’edizione che ho utilizzato è in traduzione italiana: Miguel de Cervantes Saavedra, Don Chisciotte della Mancia (trad. Ferdinando Carlesi), Mondadori, Milano 2016.

2 Cfr. Cervantes, Don Chisciotte (ed. cit.), p. 818.

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fr. Giuseppe Filippini
Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it

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