Ero lì, sotto le arcate voluttuose della barocca biblioteca del convento, mentre leggevo di gusto un esile libretto: L’intelligenza della fede. Il motivo era molto semplice: aveva fatto del bene a degli amici (che è il vero scopo per cui si scrive), al che anch’io volevo vedere quel bene.
Dopo un po’ che lo scorrevo iniziai ad accorgermi che fra le pagine stavo trovando un’antica affinità, una conoscenza in comune… finché non mi balenò l’idea: “…Qoeleth!”. È vero che per me Qoeleth è il libercolo più affascinante dell’Antico Testamento, che le cose amate si vedono dappertutto ed è vero che il rischio più sottile di un commentatore (o forse la sua più alta vocazione?) sia far altrui le proprie idee (sempre meglio, però, che fare proprie le altrui)… ma questa volta no, ne ero estremamente persuaso… mi ero accorto che L’intelligenza della fede è un Qoeleth, ma non in modo veterotestamentario: al modo di Cristo. Avevo il profondo sentore di essere di fronte ad un Qoeleth consolato.
Vi è da dire che da quando ho conosciuto padre Barzaghi, ho avuto il presentimento che il tratto più tipico del suo pensiero sia la consolazione. Se uno mi chiedesse il cuore di ciò che insegna, io direi: una teologia eminentemente metafisica della consolazione. Perché? Non è solo una cosa che si avverte nello studio, ma nel suo gesto umano, nel suo modo di predicare: quando un uomo è affascinato da ciò che ha visto, si vede. In lui questo fascino ha una sua particolare connotazione: nel momento in cui annunzia il vangelo, è come se già ne avesse nostalgia.
Ma prima di tutto bisogna cercare di capire perché Qoeleth? In effetti l’autore non lo menziona mai, cosa che forse potrebbe rendere un po’ ardita la mia lettura, sebbene nel leggere, forse più che nello scrivere, ci voglia grande cautela. Eppure il parallelismo credo sia evidente. Non dico che sia esplicitamente costruito (i contesti sono differenti), ma è come se fosse sempre alluso. L’anonimo semita, infatti, incomincia parlando della vanità col celebre incipit “Vanità delle vanità, dice Qoèleth, /vanità delle vanità, tutto è vanità” (Qo 1, 2), per tradurci subito dopo questo contenuto con l’immagine della circolarità, sia cosmologica che cronologica: “Il sole sorge e il sole tramonta, / i affretta verso il luogo da dove risorgerà. / Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; / gira e rigira / e sopra i suoi giri il vento ritorna” (Qo 1, 5-7).
Questa circolarità culmina nel celebre capitolo III, dove non solo viene insegnata una saggia dottrina sui tempi opportuni, ma dove inizio e fine si annullano. Tutte le coppie riportate in quel famoso “C’è un tempo per…”, sono nascere/morire, piantare/sradicare, uccidere/guarire, demolire/costruire, piangere/ridere, gemere/ballare, gettare/raccogliere e così via, sono l’alternarsi di azioni positive e negative. Il risultato: +1-1=0, come mi fece notare una volta un arguto Monsignore bolognese.
Segue quindi un ridimensionamento del sapere. Come l’ordine cosmico e l’ordine storico (“Quel che è stato sarà / e quel che si è fatto si rifarà / non c’è niente di nuovo sotto il sole” Qo 1, 9), così è anche l’ordine della conoscenza è vacuo: “Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza […] anche questo è un inseguire il vento” (Qo 1, 18). Se vano è il sapere, ciò per cui un saggio è saggio, la sorte del saggio non ha più nessun motivo di differire da quella dell’empio: “Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto” (Qo 2, 16), il che rende vera saggezza mangiare e bere e godersi il frutto delle proprie fatiche, anzi non vi è niente di meglio (Cfr. Qo 2, 24). In una parola il gustare è la vera saggezza.
Gli stessi temi ricorrono quasi nel medesimo ordine nelle prime parti del libello di p. Giuseppe Barzaghi. La vanità con un lampeggiato incipit: “Svanire, sfumare… Quando usiamo queste parole ci troviamo sempre di fronte a qualcosa che se ne va per non tornare più. Qualcosa di così leggero e improprio da essere ritenuto perciò non essenziale”[1]. La parola svanire contiene la parola vanità dell’inizio di Qoeleth. Anche qui siamo immediatamente introdotti in un moto fluido e circolare grazie ad una Giga di Bach. “Il tema sta circolando. Che cosa vuol dire? Vuol dire che ne avvertiamo la fluidità. Come un qualcosa di vitale (…) Anzitutto, l’espressione intelligenza della fede, è un’espressione che in logica viene chiamata anfibologia, cioè che ti getta qua e là con la mente”[2] e ancora: “Bisogna avere un’intelligenza di ciò che crediamo, perché ciò che crediamo ci rende intelligenti in ciò che viviamo. Ecco questa è la circolarità. Ma (…) da che parte comincia? Beh, tu hai mai visto un cerchio che comincia da qualche parte?”[3]. In effetti “come la retta non ha né inizio né fine, così anche il cerchio non ha né inizio né fine. Qualsiasi punto noi prendiamo sulla circonferenza, è insieme inizio e fine”[4]. Anche qui la circolarità implica la coincidenza di inizio e di fine, cioè di opposti, ma con esito assai diverso, come vedremo.
Dalla circolarità procede, come in Qoeleth, il terzo tema: la conoscenza. Padre Giuseppe qui compie tre ridimensionamenti concatenati e un fine elogio: il ridimensionamento della ragione, il ridimensionamento della scienza, della filosofia e l’elogio del sapere. La prima viene riportata alla sua misura con un’ironia tutta lombarda: “Quel poco che comprendiamo è millimetrico. Quando ci si imbatte nella prosopopea delle celebrazioni della razionalità intesa come massimo: «la ragione dice… la ragione non tollera (…)» beh: la ragione non è altro che il movimento del pensiero secondo la non contraddizione. (…) Il caldo non è freddo, perché il freddo non è caldo: «Il caldo non è non caldo». Insomma, è proprio come la scoperta dell’acqua calda”[5].
Della seconda si ricorda come l’inizio e il fondamento sia l’ipotesi, cioè la supposizione e perciò, per quanto possano essere tronfi gli scienziati, la scienza è molto meno solida di quanto si credeva. Della terza viene detto: “Non c’è filosofia che, presa per se stessa, sia compatibile con la fede”[6] e quindi che sia vera. Al contrario sulla ragione, la scienza e la filosofia spicca il sapere: se dove capiamo siamo attivi, ma anche deboli, dove sappiamo siamo passivi e la nostra forza non è più in noi, ma in ciò che ci trascina. La vera sapienza è un abbandono a qualcosa che affascina, è un accorgerci del sapore di ciò che ci ha coinvolti[7]. Infine, ricorre anche il tema della comune sorte di saggi ed empi: “Non è che arriva il male perché uno è lontano da Dio, mentre invece, se gli è vicino, gli arriva solo bene: il male tocca anche a chi gli è vicino e proprio perché gli è vicino”[8].
Ma il parallelismo, se fa di questo libro un qoeleth, non toglie l’impronta teologica di padre Barzaghi: la consolazione. Essa non annulla la vanità del mondo, dolorosamente cantata dall’autore sacro, perché, se il mondo non fosse vano, non vi sarebbe neppure qualcosa da consolare. No, non l’annulla, la redime. Così lo svanire non è più pura vanità, perché “quando si ama (…) anche i sospiri sono essenziali. Nell’amore anche ciò che svanisce o sfuma è prezioso”[9] e si apprende l’arte di curare il frammento come se fosse tutto e il tutto con la delicatezza del frammento. Dio, infatti, che è Tutto, si è incarnato nel frammento (l’uomo), perché il frammento godesse integralmente del Tutto[10]. Così anche le sofferenze del giusto non sono più mancanza di giustizia, ma intimità con Essa (proprio perché gli è vicino). Dio, infatti, è Giustizia. Così, rimane soltanto come ultima saggezza quella che gode delle proprie fatiche e in modo particolare della fatica di non far più fatica, di chi smette di resistere e si abbandona: “Non sai perché, ma il sapore lo senti. Allora questo sapere, che è il trascinamento, è legato alla fede. (…) E la fede non costa sforzo perché è divina”[11]. Non è affatto un abbandonarsi ai piaceri, come forse ironicamente si trova in Qoeleth, ma un piacere che si abbandona alla sua Fonte. Anche il nostro piccolo comprendere è salvato nella circolarità della vera saggezza e perde tutta la sua antica banalità: credere per capire, sapere per credere. Il cerchio non è più segno del nulla, ma moto di perfezione: compimento. Ecco, dunque, cos’è la fede: la consolazione di Qoeleth. Infatti, “la fede raccoglie anche le briciole perché nulla vada perduto”[12].
Questo ci permette di rispondere ad una frequente domanda nei lettori: se uno volesse approcciare l’opera di Barzaghi, da cosa dovrebbe iniziare? Ho sempre udito padre Giuseppe citare Girolamo, dicendo che in ordine pedagogico Qoeleth è il primo libro da consultare delle Scritture. Se L’intelligenza della fede è in un qual modo il qoeleth del nostro autore, allora è ciò da cui bisogna partire.
[1] Padre Giuseppe Barzaghi op, L’intelligenza della fede, esd, Bologna 2012, p. 9
[2] Ivi, p. 15
[3] Ivi, p. 16
[4] Ivi, p. 17
[5] Ivi., p. 22
[6] Ivi, p. 49
[7] Ivi, p. 21
[8] Ivi, p. 34
[9] Ivi, p. 9
[10] Questo per lo stesso principio enunciato nel IV capitolo, L’ambiente invisibile della vita cristiana.
[11] Ivi, p. 35
[12] Ivi, p. 49
Un arguto monsignore ringrazia della citazione
Davvero p. Barzaghi è un Dottore delle Chiesa. Mi viene in mente l’analogia della materia e della forma, ossia di una missione duale che esiste nella Chiesa, quella che ha come archetipo Francesco e Domenico, l’unzione e la speculazione, la dimensione mariana e quella apostolica nella Santa Chiesa romana e più in su, la Cristologia e la Pneumatologia e che stanno tra loro appunto come l’unità d’amore tra la materia e la forma descritta dall’Angelico. La mia è una missione adiacente, di supporto, come quella di san Giuseppe, anche se non mi chiamo Giuseppe, come del resto p. Barzaghi pur chiamandosi Giuseppe, ha una missione rivelativa, come descritto mirabilmente da una densa meditazione del p. Reginaldo Garrigou-Lagrange, O.P., tratta dall’opera “L’amore di Dio e la croce di Gesù”. Grazie, grazie, grazie, p. Barzaghi e grazie all’Ordine dei Padri predicatori, alleluia!