Non c’è che dire, tanto di cappello al signor Crawford (se solo avessi un cappello, s’intende), perché per compiere una brutalità, basta un orso, non serve neanche un criminale, come per complesse torture basta un pazzo dissociato; ma per compiere con la più estrema lucidità e freddezza lo spegnimento di una vita, guadagnandosi anche il plauso inebetito della legge, per questo non bastano né un orso, né un pazzo, né un criminale, che insieme al massimo potrebbero essere i protagonisti di una macabra barzelletta. Ci vuole un genio. E il criminale diventa così quando può sfilare davanti ad una giustizia ammanettata alle sue stesse manette. Il problema, infatti, non è infrangere il sistema, ma come dice mirabilmente il giudice Moran all’inizio del processo: “Sfortunatamente, è un cittadino che paga le tasse e la costituzione gli dà il diritto di tentare di manipolare il sistema legale come chiunque altro” [Onorevole Moran].

Sin dalle prime scene ci viene detto che il sagace professore Thomas Crawford smaschera il tradimento della moglie con un agente di polizia, specializzato nel rilascio degli ostaggi: il tenente Robert Nunally. Un uomo così, ricco, brillante, intellettualmente superiore alla media non può sopportarlo: egli si sente indifeso. E così decide di riprendere il controllo dell’unica cosa che la mente non può controllare: l’amore. E decide di farlo nell’unico modo possibile: la morte. Il caso, però, rinvenuta l’arma del delitto, i bossoli e strappata una confessione al sospettato, sembra terso come l’aria (di forse qualche secolo fa), sicché capita nell’ufficio del carrierista William Beachum, giovane avvocato d’accusa celebre per aver vinto quasi tutti i suoi casi. Eppure, l’avversario scombina tutte le carte, lasciando nell’imbarazzo l’ufficio del procuratore con una sprezzante astuzia: egli riesce a scagionarsi ad ogni passo, mostrandosi fra le righe, però, come schifosamente colpevole. Per poterla spuntare il protagonista dovrà toccare tremendamente il fondo, perché l’orgoglio dei potenti si vince solo… dal basso.

Il biblista, l’ingegnere e il diavolo

In effetti, la prima caratteristica che il regista, Gregory Hoblit, ci fornisce del professor Crawford è sulle labbra della moglie che, poco prima di ricevere il fatidico proiettile, dice: “Ti ritieni molto più intelligente di me. Deve farti sentire molto… potente” [Jennifer Crawford]. Eccedente intelligenza, presunzione di sé e volontà di dominio. Sono i tre ingredienti fondamentali per la personificazione della superbia: in una parola, Crawford. Vi è da dire che questa personificazione, tuttavia, esiste già nella storia ed è tutt’altro che metaforica: il diavolo. Il che implica che chi descriva il tipo della superbia, implicitamente descriva il demonio che, per così dire, la ‘incarna’. Non si può affermare obbiettivamente che Thomas Crawford sia il diavolo nel film, perché egli è e rimane un uomo comune, capace di incassare un colpo a nocche serrate e di essere scaraventato contro una scrivania (tutte cose che un’entità spirituale non potrebbe evidentemente subire). Tuttavia egli è ciò che il diavolo sarebbe, se fosse presente esplicitamente nel racconto.

Questa allusione, infatti, è volutamente cucita nella trama: anzitutto il vecchio criminale è presentato ambiguamente come tentatore, provocatore, in modo volutamente insidioso (sia al momento dell’omicidio iniziale, che nel dialogo finale, egli entra in scena di lato, di soppiatto, dietro grate e fessure, quasi spiasse). Egli è, poi, detto vampiro, figura tipicamente diabolica: all’inizio, quando giunge la polizia a catturarlo, il professor Thomas, circondato dalle forze dell’ordine, dice: “Tanti vampiri là fuori” [Thomas Crawford]. È una frase assolutamente fuori posto, tanto che non riceve risposta; è fuori posto, perché risalti come l’associazione (vampiro-Crawford) e per questo forse rimane di difficile interpretazione. Credo sia una piccola profezia o, se si vuole, una strana anticipazione letteraria: si noti che le vittime predilette dei vampiri sono notoriamente le giovani donne. In quella stanza l’unico ad aver privato una donna della sua vita è chi pronunzia questa frase. Il vero vampiro è lì dentro, non là fuori; per tutto il film, però, il suo fine è d’uscire indenne sia dal carcere e dal caso, per giunta con la tutela della legge. Ma nel cercare di discolparsi, non riesce a trattenersi dallo sfizio di accusare e di proiettare sugl’altri le proprie colpe, cosa che è tipica dei superbi.

Un nuovo riferimento al vampiro compare analogamente più tardi quando il protagonista, l’avvocato Beachum, viene incoraggiato dal padre della sua ‘non del tutto fidanzata’: “Sa cosa nessuno capisce di certi tipi di lavori mal pagati del servizio pubblico? Che di tanto in tanto puoi ficcare un fottuto paletto nel cuore di un cattivo” [Onorevole Gardner]. Paletto al cuore… è la tradizionale morte del vampiro.

Quello che Gregory Hoblit ci fornisce è un raffinatissimo identikit del diavolo, attraverso un definito identikit dell’orgoglio: come il nemico, Crawford, in quanto ingegnere aeronautico, nutre una conoscenza profonda dei cieli, ma non intima, quanto piuttosto meccanica. Perché, come un ingegnere, il diavolo non ha intimità con le cose (come avviene nella contemplazione), si limita a sapere come funzionano, perché non le ama, le usa soltanto.

Gregory Hoblit
Gregory Hoblit

Come il nemico, anch’egli dimostra una erudizione nelle Sacre Scritture, tanto da citarle o riconoscerle. All’inizio, proprio al momento di sparare alla moglie, Thomas dice: “La conoscenza è dolore, ne sono abituato. Non che io non ricavi dei piccoli piaceri, in cambio del dolore, bada bene” [Thomas Crawford]. A questo punto preme il grilletto. È una rivisitazione di Qoeleth: “Chi accresce il sapere, accresce il dolore” (Qo 1, 18), seguita più avanti da una frase del giudice Robinson (in questo film i giudici hanno un ruolo spiccatamente profetico): “Le prove raccolte alla presenza del signor Nunally sono escluse come frutto dell’albero velenoso”. E Crawford risponde: “È la Bibbia, vero, il frutto dell’albero e il resto? È Matteo… o è Marco?” [Thomas Crawford]. È Matteo. L’espressione sembrerebbe l’applicazione di un detto evangelico: “Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi” (Mt 7, 17) così la fonte sta all’albero come i frutti alle prove: se la prima è inquinata, anche la seconda lo è.

Ora, entrambi i passi calzano a pennello: l’enciclopedica conoscenza del nemico è un sapere senza gioia, infernale, privo di pace e alla fine cinico. L’unico piacere che ne trae è egoistico e mortale. Ugualmente è interessante che Sant’Agostino nella nostra regola descriva il peccato d’orgoglio così: “Mentre ogni altra colpa si commette facendo opere cattive, la superbia va insidiando opere buone perché si guastino” [Sant’Agostino d’Ippona, Regola I]. Egli è colui che rende cattiva la verità ed enigmatico l’evidente… in sintesi, è il padre della menzogna.

Il diavolo delle 300 uova

Ma quale sia la fonte di questo inferno interiore viene celato nel curioso apologo delle uova: “Sa, mio nonno era un fattore: vendeva uova […] Controllavo le uova con la candela, sa come si fa? Tieni l’uovo contro la luce di una candela e guardi se ci sono imperfezioni: la prima volta che l’ho fatto mi disse di mettere tutte le uova rotte o incrinate in un secchio per la pasticceria. Lui tornò un’ora dopo e c’erano trecento uova nel secchio per la pasticceria. Mi chiese che diavolo stavo facendo, ma avevo trovato una crepa in ognuna di quelle: sa… punti in cui il guscio era più sottile e incrinature capillari. Se guarda attentamente troverà che ogni cosa ha un punto debole dove può rompersi, presto o tardi” [Thomas Crawford].

Uovo con piccola crepa
Foto modificata di
Steve Johnson,
“Egg” (CC BY 2.0)

Forse è una lettura un po’ ardita, ma la propongo lo stesso: abbiamo visto la corrispondenza fra il diavolo e Crawford, il che implicherebbe interpretare che il nonno del diavolo sia Dio che sottopone al giudizio della sua creatura più perfetta le altre creature (nasciture come uova). È un’idea analoga a quella di Genesi 2, 19, quando l’Altissimo conduce le cose all’uomo perché dia loro un nome. Ora, il diavolo, cioè Satana, che significa avversario e accusatore, le rifiuta tutte, perché trova in ciascuna di esse un’imperfezione sufficiente per scartarle. È l’atteggiamento del demonio di Giobbe: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui […]? […] Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!” (Giob 1, 9-11). Ecco quello che potrebbe essere l’apologo della caduta di Lucifero, cui Dio chiede conto: “Che diavolo stai facendo?”. Secondo Hoblit, il suo peccato sarebbe questo: non il rifiuto diretto di Dio, ma il rifiuto della creazione, nel cui specchio avrebbe compreso il riflesso di un Creatore che non accettava, un Creatore che include nel suo progetto la debolezza, che include l’imperfezione sino a sceglierla per Sé, sino ad incarnarSi.

Anche gli ultimi particolari potrebbero trovare un loro posto. Ad esempio, la connotazione familiare nonno-nipote sarebbe la sottolineatura della creaturalità di Lucifero: Egli non è il Figlio, è in un certo senso il ‘nipote’, cioè quanto creaturalmente si avvicina di più a Dio, senza tuttavia esserNe un parente immediato. Nell’immagine della pasticceria vi è l’idea dello scarto, del forno… di un inferno. Così il nemico si sarebbe scelto quell’esclusione che avrebbe destinato agl’altri, perché è questa, in fondo, la natura dell’Inferno: un escludere che è un escludersi. Nell’idea del Dio-fattore vi sarebbe, infine, la citazione e variazione del tema agreste del Padre vignaiuolo.

Se fosse così, Hoblit sarebbe qualcosa di simile ad un teologo. Non saprei … ai lettori l’ardua sentenza. Rimane, però, che vi è un qualcosa dell’intuizione artistica che trascende ogni intenzione dell’artista. Comunque non ci impedisce di riflettere, di andare oltre. Un buon film, infatti, è quello che si apre al di là di se stesso. In definitiva il diavolo, l’imperfetto per antonomasia, nutre una tremenda smania di perfezione. Ama lambiccarsi fra strutture bilanciate dove sferule di vetro sfrecciano perpetuamente. In definitiva, egli è un perfezionista e il perfezionista non è chi fa perfette le cose, ma chi le vede sempre imperfette in una sorta di folle e perpetua accusa: ed ecco l’Inferno. Il punto non è avere incrinature, ma accettarle, sapere chiedere perdono. Perché “quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10).

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fr. Pietro Zauli
Chi sono? In verità non ne so molto più di voi. Del resto, vivo anche per scoprirlo. Ma giustamente chi legge questo genere di presentazioni, si attende una sfagiolata di dati anagrafici. Essia! Sono nato all’Ospedale Maggiore di Bologna quel glorioso 9 settembre del 1994 (glorioso per ovvie ragioni). Chi non mi ha mai veduto senza barba, ipotizza che mi trassero dal ventre di mia madre proprio tirandomi dalla barba… inquietante, ma non smentirò questa leggenda. Frattanto in questi 25 anni di vita ho frequentato il liceo scientifico Malpighi, mi sono appassionato a Tolkien, alla Filosofia, alla Poesia medioevale e novecentesca, infine alla cinematografia, su cui amo diffondermi in raccolte meditazioni crepuscolari. Cosa ho compreso saldamente? Ad una sola vita, un solo modo per viverla. Per questo appena conseguita la maggiore età, ho fatto domanda di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Attualmente mi nutro di studi di San Tommaso, di spiritualità e di metafisica (sto affrontando un densissimo filosofo Polacco, Przywara … la pronunciabilità del nome è direttamente proporzionale alla sua chiarezza). Per contattare l'autore: fr.pietro@osservatoredomenicano.it

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