Fidarsi di una firma
Devo ammettere che essendo un estimatore del regista e sceneggiatore Quentin Tarantino, quando un suo nuovo film mi capita fra le mani, da un lato lo guardo con ogni buona disposizione mentale ed emotiva, dall’altro mi fermo, al termine, a riflettere su di esso. Quando pochi mesi fa ho visto l’ultima sua opera, ossia C’era una volta a Hollywood1, mi sono chiesto sinceramente che senso avesse rivisitare in chiave positiva un episodio orrendo di cronaca nera come il massacro di Cielo Drive2. Il voler dare un lieto fine alla vicenda infatti potrebbe sembrare non solo di cattivo gusto, ma anche offensivo per un fatto che ancora oggi indigna e commuove chiunque ne venga a conoscenza. Tuttavia, vista la mia buona disposizione verso il regista, ho provato a riflettere più a fondo sulla questione ed ho notato un elemento importante: il titolo. Utilizzando quell’enigmatico “c’era una volta” come chiave di lettura del film, una sorta di grimaldello ermeneutico fornito dal regista stesso, è possibile rileggere l’intera opera all’interno del genere narrativo della favola. Com’è noto, questo tipo di scritti è spesso caratterizzato dal lieto fine, utile però non tanto a non urtare la sensibilità dei lettori, quanto a fornire un’interpretazione del reale.
Se quindi C’era una volta a Hollywood è una favola moderna, e se questo spiega molte delle aggiunte narrative operate da Tarantino, è necessario chiedersi quale elemento reale abbia avuto bisogno della finzione per emergere.
La storia che legge la Storia
Per proseguire nel discorso credo sia utile chiarire una distinzione: quella fra scienza storica e narrativa. Oltre alle ovvie differenze di stile e destinatari, centrale è il fine: mentre una ricerca storica ha lo scopo di esporre, nel modo più obiettivo possibile, la realtà del passato, la narrativa intende far emergere un elemento significativo legato al reale. Se quindi lo storico si pone dal punto di vista dell’oggetto, ossia di un fatto da ricostruire e comprendere, il narratore fa sua invece la prospettiva del soggetto e rilegge la realtà, passata o presente, alla luce di ciò che essa suscita in colui che la vive o l’ha vissuta. Va da sé che a differenti fini corrispondono anche diversi mezzi: se lo storico deve farsi osservatore, non neutrale ma attento, e cogliere i fatti, il narratore ha il dovere di fare in modo che questi esprimano l’unico elemento che gl’interessa, ossia la prospettiva del soggetto. Ciò concede alla narrativa il diritto di uscire dalla realtà e di utilizzare la fantasia come efficace mezzo di contrasto per far emergere quegli elementi altrimenti invisibili.
Tarantino ha fatto suo questo principio non solo nel film di cui stiamo parlando, ma almeno in altre due opere: in Bastardi senza gloria, uscito nel 2009, egli presenta l’irreale omicidio di Adolf Hitler ad opera di una task force americana e, così facendo, pone in evidenza la tragica realtà della diffusione dell’odio e della crudeltà anche fra le vittime della follia nazista. In Django Unchained, del 2012, utilizza una vicenda fantastica per esporre non solo e non tanto la reale situazione della schiavitù negli Stati Uniti del XIX secolo, quanto il dramma di un male così terribile da essere scambiato per qualcosa di naturale e necessario3.
Alla luce di quanto detto appare chiaro, secondo me, che anche in C’era una volta a Hollywood gli elementi immaginari aggiunti all’accadimento reale, come i due protagonisti ed il finale, intendono esprimere un elemento soggettivo legato alla vicenda ed alla sua interpretazione.
Niente più eroi?
Di fronte ad un fatto di cronaca così terribile, ciò che colpisce maggiormente è l’indifferenza. Sia la setta di Manson sia la progettazione e l’attuazione del crimine sono stati sotto gli occhi di tutti, in una città piena di vita ed all’interno di una comunità apparentemente sana. Avvenimenti come questo ci scuotono non solo per la crudeltà che li caratterizza, ma anche perché negano un elemento sul quale contiamo: la protezione degli altri. Sia a livello istintivo, nella naturale tendenza umana a riunirsi in gruppi numerosi, sia a livello emotivo, nella convinzione che la nostra sofferenza susciti la compassione del prossimo, noi pensiamo che vi siano tanti occhi che, più meno consapevolmente, ci proteggono. La realtà, invece, in queste occasioni, sembra dirci il contrario: non vi sono eroi nel mondo e le persone che ci circondano non sono fratelli ma capi di bestiame che condividono solo lo stesso recinto.
Tarantino non intende combattere questa sensazione, tanto attuale da superare lo specifico avvenimento, con una finzione. I suoi due eroi improvvisati e gli atti che compiono non hanno lo scopo di tentare un’infantile rassicurazione emotiva tesa a negare una realtà evidente, ma intendono evidenziare la necessità, che la moderna società sente, di un nuovo tipo di eroismo. Non quello egocentrico di chi usa gli altri per illuminare se stesso, né quello distante di chi si rifugia dietro a realtà più grandi per nascondere la sua immobilità. Ciò che desideriamo è l’eroismo di chi, comune o eccezionale che sia, è capace di guardarci negli occhi quando soffriamo ed accettare il legame di carità che questo genera.
Tarantino coglie quindi la necessità dell’uomo contemporaneo di irrigare la società con un amore pervasivo il cui primo e principale effetto sia quello di togliere l’altro dall’anonimato. Senza fermarsi a questo, il film propone, secondo me, anche un modello di questa carità comune proprio attraverso il mestiere dell’attore, centrale nella vicenda. Come questo, essendo colui che finge, è sempre diverso da come appare, così l’eroe che desideriamo non è qualcuno che necessariamente manifesta la sua natura, ma semplicemente una persona pronta a cogliere ogni occasione di carità che la Provvidenza presenta ed in questa sbocciare.
1 Il film, il cui titolo originale è Once upon a time in Hollywood, è stato diretto dal Quentin Tarantino nel 2019; interpretato da Brad Pitt, Leonardo DiCaprio e Al Pacino, ha vinto due Golden Globe e due Oscar. Propone la vicenda di un attore d’azione in declino, Rick Dalton (DiCaprio) e del suo stuntman di fiducia, Cliff Booth (Brad Pitt): questi, muovendosi nella mutevole Hollywood del 1969, incrociano la triste vicenda di cronaca legata alla “Famiglia Manson”, dandogli però una differente conclusione.
2 Nella notte fra l’8 ed il 9 agosto del 1969 tre affiliati alla setta guidata da Charles Manson fecero irruzione nella villa a Hollywood del regista Roman Polanski ed uccisero la moglie, l’attrice Sharon Tate, il bambino di cui era gravida, tre amici lì presenti ed un ragazzo lì vicino.
3 Il contenuto in sé di queste letture è ovviamente personale; ciò che mi preme non è tanto l’ermeneutica dei due film, quanto mostrare l’uso che il regista fa del procedimento sopra esposto.