La figura di san Giovanni Battista è senza dubbio una delle più importanti ed affascinanti dell’intera tradizione cristiana. Di lui l’evangelista Luca scrive: “Egli sarà grande davanti al Signore; sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio” [1]. Ancora oggi il precursore di Cristo non smette di “rendere testimonianza alla luce” [2], sostenendo con la sua potente intercessione il cammino della Chiesa sulla via della salvezza e illuminando con il suo insegnamento le realtà più importanti della fede cristiana.
Fermandomi a riflettere sulla persona del Battista ho capito quanto egli sia importante anche nel contesto della sacra liturgia, non solo in quanto “voce che grida nel deserto”, come la maggior parte dei cerimonieri e dei liturgisti.
A partire dai primi anni del secolo scorso la riflessione teologica e pastorale sulla preghiera della Chiesa, culminata nelle riforme del Concilio Vaticano II, ha considerevolmente rivalutato anche nel contesto liturgico l’importanza del verbo “fare” fino ad allora sovente demonizzato con eccessiva facilità. Il termine stesso “liturgia”, unendo in sé le due parole greche “leit” (popolo) ed “ergon” (opera), suggerisce come essa consti necessariamente di un movimento, di un ritmo proprio, di un’unità dinamica.
Tutti coloro che prendono parte, anche con superficialità e senza una competenza più profonda, alle celebrazioni del culto cristiano hanno la chiara percezione che al suo interno venga “fatto qualcosa”. Del resto il Signore stesso, comandando al collegio apostolico di perpetuare nei secoli il santo mistero del suo Corpo e del suo Sangue offerti per la salvezza del mondo, non ha forse detto “Fate questo in memoria di me”? Questa consapevolezza ha portato i padri conciliari a preferire a termini come “riti”, “cerimonie” e “funzioni”, l’espressione “azioni liturgiche” a cui non è bene che i fedeli partecipino come “estranei e muti spettatori” [3], ma come membri attivi e coscienti.
L’importanza decisiva dell’azione nel contesto della liturgia rischia tuttavia di essere estremizzata al punto da ridurre le celebrazioni della Chiesa a spettacoli banali in cui l’esperienza del sacro lascia spazio alla stravaganza e al protagonismo di alcuni. Per evitare questo pericolo, oggi davvero troppo diffuso, è importante interrogarsi sul vero significato del “fare “all’interno del culto. Un insegnamento prezioso a questo riguardo, mi pare venga offerto da san Giovanni Battista nel momento del Battesimo di Gesù presso il fiume Giordano, narrato da san Matteo alla fine del terzo capitolo del suo Vangelo. [4]
L’evangelista riferisce che davanti alla richiesta del Figlio di Dio di essere battezzato, il santo precursore, superato un iniziale momento di stupore ed incertezza, “lo lasciò fare”[5]. Questa espressione, decisiva per comprendere l’atteggiamento del Battista, non deve essere intesa come pura passività: immediatamente dopo battezza Gesù nelle acque del fiume, permettendo che egli si manifesti come il Figlio amato in cui il Padre ha posto il suo compiacimento. San Giovanni, dunque, agisce e consente che, attraverso il suo fare, possa agire il Signore stesso. Questo è anche il senso profondo di ogni azione liturgica: l’agire degli uomini è fondamentale, nella misura in cui partecipa dell’opera salvifica di Dio. Il Signore Gesù infatti “è presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20).” [6]
Dopo aver compreso l’importanza dell’azione di san Giovanni possiamo fare un piccolo passo avanti nella nostra riflessione (non è questo, in fondo, un articolo che parla di “azione”?) e osservare come l’agire del precursore non consti di alcun gesto straordinario: colui presso cui accorrevano le folle per essere battezzate semplicemente battezza ancora una volta. Giovanni ha messo a disposizione di Cristo null’altro che se stesso e la missione che era stato chiamato a compiere.
Un tale atteggiamento di sollecita umiltà è un esempio prezioso che dovrebbe guidare le azioni liturgiche della Chiesa nelle quali tutto non può essere compiuto da tutti. Al contrario i padri conciliari hanno sottolineato come sia bene che nella sacra liturgia “ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza.”[7] Grazie a questa distinzione di funzioni ogni azione liturgica diviene un complesso armonioso dove il Signore ci accoglie e valorizza per ciò che siamo, autentica manifestazione della Chiesa che è “segno visibile della comunione di Dio e degli uomini per mezzo di Cristo.”[8]
Come ogni espressione del “fare” ugualmente le azioni liturgiche rischiano di precipitare nell’abitudinarietà e nella ripetizione meccanica di gesti. Davanti a questo pericolo risplenda la meravigliosa figura del Battista, ormai anche “liturgista”, che fin dal grembo materno ha esultato di gioia avvertendo vicina a sé la presenza dell’Altissimo.
[1] Lc 1, 15
[2] Gv 1, 7
[3] Sacrosanctum Concilium, 48
[4] Mt 3, 13-17
[5] Mt 3, 15
[6] Sacrosanctum Concilium, 7
[7] Sacrosanctum Concilium, 28
[8] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1071
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