La figura del silenzio
Nell’omelia rivolta ai fedeli durante la sua visita pastorale alla parrocchia di san Giuseppe al trionfale a Roma (19.03.1965) il beato papa Paolo VI, parlando ai fedeli presenti, si rivolse con queste parole: “Che cosa di più umile, di più semplice, di più silenzioso, di più nascosto ci poteva offrire il vangelo da mettere accanto a Maria e Gesù? La figura di san Giuseppe è proprio delineata nei tratti della modestia, la più popolare, la più comune, la più, si direbbe usando i metri dei valori umani, insignificante, giacché non troviamo in lui alcun aspetto che ci possa dare ragione della sua reale grandezza e della sua straordinaria missione che la provvidenza gli ha affidato e che forma, a buon diritto, il tema di tante considerazioni, anzi tanti panegirici in onore a questo santo”[1].
Effettivamente, a guardarlo bene, come in filigrana dal racconto evangelico, Giuseppe si mostra con i tratti più salienti di autentica umiltà: un modesto e povero operaio che nulla possiede di singolare, che non lascia, nelle sacre pagine, neppure un accento della sua voce.
L’umiltà degna
Con un linguaggio, sicuramente più moderno, potremo dire che Giuseppe oggi sarebbe stato un artigiano del legno, un maestro nel suo settore, ossia un lavoratore che si guadagnava da vivere col sudore della fronte e la fatica delle proprie braccia. Era comunque un uomo di modeste condizioni sociali, con esigui proventi per la famiglia a carico, un lavoratore semplice, indipendente, non soggetto ad alcun titolare.
Per un uomo di cultura giudaica, il suo lavoro era considerato onesto, degno di una persona libera; era un’attività sociale e dunque, era un’evidente segno d’amore per la sua famiglia. E si sa che l’amore ha la straordinaria capacità di riscattare anche il mestiere più umile e sa purificare qualunque onesto lavoro da ogni ombra di servilismo.
Per un uomo pagano, invece il ruolo di artigiano era ritenuto un mestiere da schiavi, non degno di un uomo libero, pertanto considerato umiliante, tanto che Origene, per difendere Gesù dalle mordaci ironie di Celso, affermava che il figlio di Giuseppe non aveva mai esercitato un tale mestiere[2].
Senza ombra di dubbio, il lavoro di Giuseppe non aveva una significativa rilevanza sociale, tanto da meritagli la ribalta delle cronache. Oltretutto era artigiano in un villaggio di poco conto: “Da Nazaret può venire qualcosa di buono?” (Gv 1, 46). Insomma Giuseppe si impegnava assiduamente nel proprio lavoro, ma senza grandi ambizioni, senza pensare di “farsi strada”, di scalare le vette dell’economia, o tanto meno di prepararsi un’adeguata pensione. Tutto sommato aveva una vita rigorosamente semplice, umile, comune, scandita da anni e anni di lavoro sempre uguali, di giorni che si susseguivano con apparente monotonia, ma in realtà sempre nuovi, perché vissuti a conseguire il grande progetto di Dio, la santità.
Il volto del giusto
L’evangelista Matteo nel tessere l’elogio di Giuseppe esaurisce sbrigativamente con una sola parola il suo panegirico; e tuttavia è un vocabolo che vale più di tante altre parola, anche più della sua discendenza davidica. “Giuseppe, che era giusto,…”. Non c’è dubbio che sia la parola più “giusta” che si potesse usare, perché risulta la più pregna di contenuti teologici.
Giuseppe è giusto perché si è impegnato a eseguire in tutto la volontà di Dio; non ha mai avanzato la pretesa di rivendicare uno scampolo di autonomia personale per realizzare un qualche suo privato programma. La sua vita è stata un’esistenza votata interamente a Dio.
È precisamente in occasione di una prova, in cui viene a trovarsi Giuseppe, che si conferma come giusto. Egli è fidanzato con Maria (lc 1, 27; Mt 1, 18) e secondo la tradizione ebraica, il fidanzamento produceva gli stessi effetti del matrimonio: l’uomo era considerato già marito e la donna già moglie. Erano tenuti alla reciproca fedeltà. Al termine di un anno, poi si celebrava il matrimonio con un suggestivo rituale e i due sposi prendevano a vivere insieme.
Matteo, ci riferisce, però, che Maria, prima che andassero a vivere insieme, mostra chiari segni di maternità e precisa che quel prodigio è opera esclusiva dello Spirito Santo. Giuseppe ignora totalmente l’intervento divino in Maria e si ritrova alle prese con due certezze che lo conducono alle soglie del mistero: è profondamente convinto della purezza irreprensibile della sua sposa, per cui non avanza il minimo sospetto sul suo conto (se avesse pensato a una colpa in lei sarebbe stato “ingiusto” a non denunciarla pubblicamente). Dall’altra parte è molto evidente il segno della maternità, l’attesa di un figlio. Dunque ha la consapevolezza di trovarsi a tu per tu con un evento misterioso, umanamente inspiegabile, ed è per questo che tra sé avanza l’ipotesi di rimandare via libera Maria, ma in tutta segretezza. Egli è sicuro che Dio non lo abbandonerà in quella prova
E la sua fiducia non è delusa.
Giuseppe ci insegna l’alto valore della fiducia dell’uomo in Dio, del sentimento autentico e profondo che deve legare l’uno all’atro; del resto, ci ricorda bene Ernest Hemingway: “Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è di dargli fiducia” … e Dio non delude mai
[1] Paolo VI, Insegnamenti di Paolo VI, 1965, III, 1195-1196.
[2] Origene, Contra Celsum, CCS, VI, 34.36.