Nel precedente articolo (Un “nettare” prezioso: lo studio nella vita domenicana) ho introdotto il tema dello studio nella vita domenicana, sottolineando la determinante distinzione tra saccenteria e sapienza. Questa volta guarderemo allo studio come specchio.
Quando guardiamo in uno specchio abbiamo la possibilità di vedere ciò che altrimenti non vedremmo nello stesso istante. Infatti, se non fosse per gli specchi, non conosceremmo né il nostro aspetto, né ciò che ci sta alle spalle, dovremmo fidarci di ciò che ci dicono gli altri, ma non avremmo un punto di vista personale. In senso figurato, lo studio è uno specchio nella misura in cui ci richiama costantemente a indagare l’umiltà del cuore, può essere uno strumento formidabile per capire chi è il centro della nostra vita. Esso esige equilibrio interiore, così che non si sfoci mai nell’idolatria, soffocando lo slancio caritativo che lo studio dovrebbe suscitare. Per noi domenicani il fulcro sta proprio qui: studiare già orientati al prossimo, in altri termini, lo studio diviene contemplativo.
Vorrei partire da un luogo, sempre presente nei nostri conventi: la biblioteca. Sul significato di quest’ultima credo sia importante riflettere. Essa rappresenta un continuo monito. Mi spiego. La biblioteca può rappresentare una custodia del sapere oppure un invito alla conoscenza. Guardiamo alla prima ipotesi. Continuando ad attribuire alle nostre biblioteche il marchio del sapere, si avrà una visione sempre incompleta. Se ci pensate, la dimensione del mero sapere ha in sé il carattere della passività, richiede soltanto intelligenza. Si legge, si impara, si ripete, si immagazzina, al più si fa proprio… questo possono farlo in molti, non serve essere un religioso. Uno ci impiega di più, l’altro di meno, chi meglio chi peggio, ma prima o poi ci arrivano tutti. Ora, se caliamo questa visione nella vita sorgono problemi molto seri. Ne derivano consacrati zoppi, risucchiati – magari inconsapevolmente – nel vortice della mediocrità, propria di chi fa i conti in tasca a Dio, organizzando tutto mettendo sé stesso al centro. Si badi bene: il pericolo menzionato non riguarda soltanto l’intellettualismo nella vita religiosa, ma anche – quanto mai oggi – l’attivismo pastorale che soffoca, incanalandosi nella frenesia della società contemporanea, quello “stare” indispensabile per il religioso.
Parafrasando un noto passo paolino1 si potrebbe dire così: amare Dio sopra ogni cosa e, per conseguenza, sperimentare la dilatazione del proprio cuore verso il prossimo; la carità è quindi il vincolo della perfezione, dunque il cardine per un approccio equilibrato allo studio.
Ahimè, abbiamo spesso davanti agli occhi realtà simili, nella vostra vita quotidiana ne vedrete di certo, ma quello dell’ambizione, del successo, della “gloria” terrena è un tarlo, silenzioso ma distruttivo, che non è estraneo alla realtà ecclesiastica… È la via maestra per rigettare e sprecare il dono divino, straordinario e personalissimo, della vocazione.
Dobbiamo stare tutti molto attenti a questo: è una tentazione subdola che sa infiltrarsi silenziosamente ma è come un ruscello che scava la roccia, all’inizio sembra innocuo ma col tempo crea una voragine, ci rende fantocci idolatri e mascherati, ma che ne è dell’umanità di Cristo che dobbiamo incarnare nella nostra vita di cristiani… Cosa ci salva da questo rischio? Bella domanda, ma credo, in primo luogo pensare alla santità della nostra vita, orientando continuamente cuore e mente al cielo, nostra patria, e non alla terra, avendo Cristo come unico paradigma eccelso e insuperabile: quello del cristiano è un itinerario di umanizzazione. Mi domando come si possa vivere sinceramente l’oggi di Dio, se non in un totale affidamento a Lui istante dopo istante; oggi, oggi senza dilazione, oggi senza progetti tutti umani, ma preghiamo solo di essere umili e attenti cooperatori dei disegni di Dio, tutto il resto è paglia, si dissolverà come fumo dinanzi a noi, prima o poi. Non c’è da farci affidamento.
Spero di non venir tacciato di infantilità per quanto scriverò ora – che grazia però se lo studio avesse costantemente in sé l’elemento dell’infantilità –: ogni volta che sorgono in noi progetti ove, alla luce della preghiera e della meditazione, si scorge l’ambizione, la prevaricazione, l’invidia, l’ascesa, il conflitto, la competizione ecc. stiamo molto attenti. Preghiamo lo Spirito Santo perché renda docile e sapiente il nostro cuore, perché faccia crescere in noi lo spirito di abbandono totale al Padre e diciamo col cuore, più e più volte – parafrasando un santo eccezionale quale san Filippo Neri – “Preferisco il Paradiso”! Stiamo pur certi che se quel progetto era tutto umano, cadrà presto nel dimenticatoio. Nessuno del resto può essere così folle da non preferire il Paradiso, provando perfino disgusto per ciò che può impedirgli di correre verso di esso. Non c’è nessun “poi e… poi” per il cristiano, abbiamo già oggi tutto ciò che ci “serve” e in abbondanza, basta Cristo.
Guardiamo ora all’altro significato che ho attribuito alla biblioteca, quello di invito alla conoscenza. Si apre tutt’altra prospettiva. La dimensione conoscitiva ha il carattere dell’attività. Non vi è un mero atto apprensivo, ma questo è solo l’inizio di un lavoro che ha luogo nella propria interiorità e che non può evitare di manifestarsi esteriormente. A tal proposito, non si può prescindere dallo sviluppo integrale della persona che necessariamente lo studio deve comportare, se vuole essere fruttifero. Ecco allora che le biblioteche divengono sì un luogo di crescita, in cui si impara, ma nella delicata armonia tra appreso e vissuto, crescendo così nella propria umanità.
Credo vivamente che se lo studio non conducesse ad uno sviluppo integrale di sé, sarebbe meglio lasciar perdere, non servirebbe proprio a niente, né per la nostra né tanto meno per l’altrui salvezza. A queste condizioni, meglio un’ignoranza ricca di umanità che un’intelligenza piena di superbia.
Le nostre Costituzioni, nell’ambito della ricca trattazione sullo studio, si esprimono ottimamente: «San Domenico […] volle che facesse parte del suo Ordine lo studio come strumento – si badi bene – del ministero della salvezza. […] Il nostro studio principalmente e con ardore deve soprattutto tendere a far sì che siamo di utilità alle anime del prossimo»2. Più chiaro di così… ma come vivere ciò se non come costante riflesso dell’umiltà del cuore? Credo che solo uno studio concepito come dura ascesi e orientato all’effettivo bene del prossimo possa proteggerci dal decadimento del mortifero ripiegamento su di sé. Un’insidia, quest’ultima, che può essere scoperta, quindi evitata, nel momento in cui della “scienza” non venga fatto un uso “dannoso” per i fratelli, ma lasciando che, pervasa dalla carità, risulti edificante per noi e per il prossimo. Mi pare che in questo modo la conoscenza divenga un autentico ed armonioso strumento per la salvezza delle anime.
Lo studio, specialmente per il domenicano, diviene proprio come uno specchio; osservandoci con attenzione e di continuo, possiamo capire se ci concentriamo soltanto su noi stessi o su tutto ciò che lo specchio ci mostra. E, figurativamente, cosa ci mostra lo specchio? Porta sempre davanti agli occhi il fine, lasciando il mezzo al suo posto: in altri termini evita che lo studio (mero mezzo) divenga fine e idolo mortifero. Lo studio – continuando con la metafora utilizzata – ci può permettere di non concentrare l’attenzione solo sulla nostra immagine riflessa nello specchio ma anche – e soprattutto – su ciò che sta dietro di noi, invisibile senza lo specchio, ma in cui siamo inseriti e viviamo. Forse, quando la nostra visuale si allargherà a contemplare, con uno sguardo sempre inclusivo, ciò che ci circonda, potremo giungere a dire di studiare veramente per un fine diverso da noi stessi.
Per leggere il terzo di questa serie di articoli dedicati allo studio nella vita domenicana clicca qui: Lo studio come chiave – parte terza.
1 Cfr. 1Cor 8,1-3.
2 Cfr. Libro delle Costituzioni e delle Ordinazioni dei frati dell’Ordine dei Predicatori, nn. 76-77.