Un insolito medico
Cammino per una via di Bologna vestito con l’abito bianco dei frati Domenicani. Un bambino vedendomi esclama: “Garda mamma, il dottore”! Penso: “Oggi mi è andata bene, l’altra volta fui confuso con Batman!” Riflettendoci, mi piace questo paragone “sanitario”. Del resto la Chiesa mi chiede di impegnarmi a continuare con lei l’opera salvifica di Colui che più volte si è presentato come il medico delle anime e dei corpi.
Ciò era già stato compreso dal profeta Isaia che contemplando la Passione di Cristo nella prefigurazione del servo sofferente di YHWH esclama: “egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”[1]. Lo stesso Figlio di Dio, davanti allo scandalo provato dai farisei per stare a tavola in compagnia di un grande numero di pubblicani e peccatori, ha ricordato che “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”[2]. Alcuni secoli dopo il grande sant’Agostino di Ippona ha aiutato i cristiani a comprendere meglio queste parole che Gesù ha pronunciato in riferimento a se medesimo: “Come qualsiasi cura è la via per recuperare la salute, così fu della cura adottata da Dio: si rivolse a dei peccatori per guarirli e per rimetterli in salute. E come quando i medici fasciano le ferite lo fanno non alla buona ma con arte, per cui dalla fasciatura deriva non solo un’utilità ma anche una specie di bellezza, così è stato della medicina della Sapienza quando, assumendo l’umanità, si è adeguata alle nostre ferite. Così fece la Sapienza di Dio quando volle curare l’uomo: per guarirlo gli offrì se stessa e divenne medico e medicina”[3].
Tuttavia, lo sappiamo bene, la parabola del seminatore è una dura realtà. Anche questo granello di salvezza seminato dal Signore è destinato a cadere sui terreni più svariati, portando frutti diversi tra loro. Sui passi del Cristo “medico” mi sembra si presentino in modo particolarmente evidente tre varietà di suolo.
I troppo sani
Ci sono anzitutto i “sani”, coloro che credono (o se non altro dicono) di non essere mai stati colpiti da alcun male, di aver sconfitto, soprattutto grazie alle loro forze, ogni fragilità morale e corporale affacciatasi sulla loro strada. In forza di questo, si pensano autorizzati a guardare con supponenza coloro che si trovano nella sofferenza, ma anche qualunque mano tesa verso di loro. Persone come queste affollano il Vangelo, pensiamo ai farisei o al ladrone che insulta Gesù in Croce, ma anche la vita quotidiana di ogni uomo.
I troppo infermi
Ci sono poi uomini e donne “sempre e necessariamente infermi”. In qualunque situazione devono trovare qualcosa per cui lamentarsi e le loro difficoltà, di qualunque genere, diventano l’argomento dominante (quando non esclusivo) dei loro discorsi. Agli occhi degli altri appaiono come piante che hanno scelto di affondare le proprie radici nell’autocommiserazione e nell’altrui compassione. Per essi il male (reale o presunto) è una risorsa tutto sommato positiva che, se forse non deve essere cercata, senza dubbio non può essere allontanata.
Entrambe queste categorie non guardano certo di buon occhio la “medicina della Sapienza” offerta da Dio. Innanzi a questa i “sani” sono costretti a confrontarsi con quella fragilità che a causa del peccato originale è contratta da ogni uomo, mentre i “perennemente infermi” si sentono sradicati da ciò che li nutre. Ostinandosi nel loro essere, questi gruppi giungono a rifiutare con grande determinazione il Signore Gesù e ogni sua cura. Così facendo si espongono ad un grave pericolo: a forza di essere occultato o desiderato il male finirà per completare il suo decorso. E il male, quando giunge alla fine, porta alla morte. Anche a quella che san Francesco chiamava “seconda”.
I veri pazienti
Nel mondo, poi, c’è una terza categoria, quella di coloro che ben sanno di aver bisogno di Gesù. Sono i “malati”. Ad essi non piace la situazione in cui vivono, l’unica consolazione che traggono da essa è quella di completare nella loro carne “ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”[4]. I malati non amano dare spettacolo delle loro sofferenze, ma stringono le mani di coloro che verso di loro le tendono e così rinsaldano i legami di fraterna carità tra gli uomini. I malati non si sentono superiori agli altri che sono nel dolore, perché si riconoscono in essi e appena possono cercano di alleviare per quanto è loro concesso le sofferenze umane. I malati, soprattutto, desiderano guarire. Per questo cercano Gesù, gli tendono le mani, lo fanno entrare nelle loro vite, gli urlano quella frase che Egli già conosce bene: “Signore, se vuoi puoi purificarmi!”[5]. I malati, in Paradiso andranno a ringraziare quel centurione che ha mostrato agli uomini di ogni tempo e luogo come una sola parola di Gesù può distruggere ogni male.
Spesso siamo portati a lamentarci del mondo. Ci accontentiamo di considerarlo una valle di lacrime, guardiamo a lui come ad un irreversibile infermo. Si può fare qualcosa di diverso: si può voler bene ai “malati” ed essere a loro tanto riconoscenti. Ciascuno di loro, con la sua storia, ci assicura che Cristo ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Così anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del Figlio di Dio crocifisso e risorto.
[1] Is, 53,4.
[2] Mt, 9, 12
[3] Agostino, De Doctrina christiana, I, 14, 13
[4] Col, 1, 24
[5] Lc, 5, 12