Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.
(Mt 6, 19-21)
Questa pericope del Vangelo penso che potrebbe riassumere bene il significato che ha per me essere un frate Domenicano.
Ho trovato il mio tesoro e con esso ho trovato anche il mio cuore.
Non è una semplice frase retorica ad effetto ma è la realtà!
Là dove c’è il nostro tesoro si nasconde anche il segreto della nostra persona, la nostra intimità, la nostra gioia e anche la nostra fragilità, una fragilità amata.
Insomma, là dove c’è il nostro tesoro ho sperimentato che si nasconde il senso della nostra esistenza.
La mia vocazione inizia a 14 anni quando sono entrato in seminario affascinato dalla figura del sacerdote e con il desiderio di consacrarmi tutto a Dio.
Poi con il passare degli anni questo desiderio si è affievolito, pur continuando a stare in un ambiente religioso, e penso che per un periodo della mia vita si sia anche spento del tutto, lasciando il posto ad una nera inquietudine che non mi dava pace.
Fondamentalmente ero arrivato a concepire il cristianesimo come un insano volontarismo che non faceva altro che portarmi inevitabilmente a stati di frustrazione nel tentativo di raggiungere con le mie forze un «dio ideale» che restava irraggiungibile.
Amavo un Dio che non si era ancora incarnato dentro di me e che restava semplicemente una meravigliosa idea di perfezione.
Poi arriva la scelta per l’Ordine Domenicano e lì, precisamente nel mio anno di noviziato, penso di aver avuto la mia autentica conversione.
La Parola di Dio dentro di me risuonava in un modo inaspettato e diverso fino ad allora; tutto era illuminante e mi si aprivano porte dietro le quali si nascondevano giardini meravigliosi.
Qui ho avuto la mia personale riscoperta della Parola di Dio e di conseguenza del mio rapporto intimo con Cristo.
Non era più quel Dio lontano che in fondo sulla mia vita non aveva molto da dire ma ora era diventato un Dio personale, che parlava al mio cuore, che faceva vibrare l’intimo del mio essere.
In una frase: ero risorto a vita nuova!
E per usare un’espressione di santa Elisabetta della Trinità: «Questa intimità con lui “al di dentro” è stata il bel sole che ha irradiato la mia vita facendone come un Cielo anticipato».