Durante i faticosi allestimenti dei nostri presepi, sorge spontanea una domanda: «ma davvero quella notte c’era così tanto movimento?». Se ci mettessimo ad osservare in maniera critica un presepe ci renderemmo conto di come quella situazione sarebbe la meno adatta alla nascita di un bambino. La stradina che percorrono i magi per arrivare alla grotta è affollata da osterie, pescivendoli, gruppi di oche starnazzanti e similari; volendo fare un paragone con la contemporaneità, è come se Gesù nascesse all’interno di un centro commerciale.
Nei vangeli dell’infanzia, cioè quei pochi versetti che ritroviamo nel vangelo di Luca e in quello di Matteo che raccontano della nascita del Redentore: tutto si esaurisce in poche informazioni essenziali. La nascita di Gesù in una mangiatoia, l’annuncio ai pastori e la visita dei magi, non c’è traccia né di osterie né di lavandaie.
Il primo e più famoso presepe fu quello realizzato da San Francesco d’Assisi a Greccio, quello che pochi sanno è che in quel presepe non c’era la sacra famiglia ma soltanto una riproduzione della stalla e della greppia o mangiatoia chiamata in latino “praesaepe”. La curiosa scenografia fece da ambientazione per la celebrazione della messa di Natale, dopo che Papa Onorio III ebbe dato il suo consenso.
Quasi contemporaneamente al presepe dei “cugini” francescani, nelle chiese domenicane iniziano a comparire le raffigurazioni della Adorazione dei magi; “…volendo (San Domenico) insegnare ai Frati con quanta riverenza dovessero pregare, diceva loro: «Guardate i santi Magi, questi devoti re, entrando nella casa, trovarono il Bambino con Maria sua Madre e, prostratisi, lo adorarono…»”.
È però dalla scarna rappresentazione di Greccio che parte quella tradizione che nel corso dei secoli si è vista sempre più arricchita di dettagli e personaggi particolari. Sia nei presepi che nelle opere pittoriche i molti personaggi presenti hanno assunto anche dei significati ben precisi. La donna con le braccia levate al cielo in segno di ringraziamento è chiamata “la meraviglia”, “Beniamino” è il pastorello dormiente riceve in sogno l’annunzio dei cori angelici, l’anziana signora che conduce per mano la bambina diventa “la Tradizione”. Le diverse attività attorno alla grotta diventano i presagi degli avvenimenti futuri; la locanda del vino ed il fornaio, ad esempio, sono diventati dei richiami al Corpo e Sangue di Cristo, la zingara predice la passione di Gesù mentre il falegname sembra lavorare i pezzi della croce.
All’interno della santa grotta le simbologie e i colori formano veri e propri trattati teologici. La Beata Vergine contempla Gesù che dorme nella mangiatoia, i colori delle sue vesti sono solitamente il rosso e il blu. Questi colori che per noi richiamano regalità e divinità erano invece per il popolo giudaico i colori del lutto. Maria contempla il bambino dormiente come più avanti lo avrebbe contemplato deposto dalla croce. Di questo rimando sono ricche le icone orientali nelle quali la grotta e la culla sono difficilmente distinguibili da un sepolcro.
Il bue e l’asinello diventano rispettivamente l’immagine del popolo giudaico e dei pagani secondo la profezia di Isaia: «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone…» (Is 1,3). San Giuseppe indossa un mantello di colore bruno tendente al blu ed una veste giallognola simboli della sua umiltà.
Nel giorno dell’Epifania, compaiono davanti alla grotta anche i famosi re magi. Nel corso dei secoli si è molto speculato su di loro, il vangelo armeno dell’infanzia ci tramanda i nomi di tre sacerdoti persiani: Melkon (Melchiorre), Gaspar (Gaspare) e Balthasar (Baldassarre). I tre personaggi sarebbero presto diventati immagine dei popoli delle terre allora conosciute, un persiano dalle terre dell’oro, un arabo meridionale dalle terre dell’incenso e un etiope dalle terre della mirra. Lo stesso numero dei magi fu un tema di grande discussione fino ad una dichiarazione di papa Leone Magno che lo stabilì definitivamente anche come conseguenza del numero dei doni.
La stalla, spesso ricavata all’interno di una grotta si riferisce alla collocazione della Basilica della Natività a Betlemme, sorta appunto vicino ad una grotta la cui esistenza ci viene tramandata anche dai Vangeli apocrifi. La grotta era anche considerata un simbolo dell’intero cosmo ed aveva quindi senso che in un luogo simile nascesse il Redentore di tutta la creazione.
Con l’avvento dell’arte fiamminga e della maniacale cura dei particolari tipica dei presepi napoletani, le scene della natività continuano ad arricchirsi fino al XX secolo, quando purtroppo le produzioni in serie iniziano a perdere le simbologie teologiche tipiche della ricerca attenta delle grandi opere dell’arte e dell’artigianato.
Tenendo sempre a mente i diversi simboli nascosti nei nostri presepi, non dobbiamo dimenticare il grande simbolo che l’intero presepe rappresenta, la fine della grande attesa da parte del popolo eletto e l’inizio di quel grande mistero della redenzione nell’eterno presente della creazione del mondo. In un piccolo villaggio della Palestina chiamato Betlemme che in arabo significa “casa della carne” ed in ebraico “casa del pane” si andavano compiendo le parole dei profeti secondo le quali sarebbe nato il Salvatore.
In quella sperduta grotta ha inizio la rigenerazione del mondo, forse il modo migliore di riscoprire il grande valore del presepe come annuncio di pace e di liberazione per tutti i popoli della terra è quello di guardare a quella scena con lo sguardo semplice e ammirato di quei primi pastori che ricevettero l’annuncio degli angeli ed il silenzio adorante di quei saggi venuti da lontano per piegare le loro ginocchia davanti al re dei re, l’Emmanuele, il Dio con noi.
Fate piano, il bambino dorme… Buon Natale a tutti!