La parola “vocazione” è una delle più belle del vocabolario cristiano. Allo stesso tempo, però, è difficile spiegare che cosa essa sia. Se non altro, io mi trovo un po’ impacciato quando devo motivare agli altri la scelta di diventare frate domenicano.
“Perché sei entrato in convento?”. È veramente complicato trovare delle risposte sintetiche che descrivano in modo esaustivo il “perché” della mia vocazione. Spesso mi chiedo mentre racconto la mia storia: “Ma è veramente questo il motivo per cui sono un frate?”. Mi sono accorto che ciò che nella mia coscienza sembra avere un’evidenza e una forza inattaccabile, nel momento stesso in cui lo esprimo sembra perdere quel potere in apparenza così convincente. E non è finita. Le ragioni che mi fanno perseverare in questo cammino cambiano col passare del tempo. Sarebbe comodo metterle in un frigorifero a temperatura zero assoluto e scongelarle al momento giusto, ma non è così.
Eppure ciò che ci spinge ad abbracciare scelte di vita così importanti (come la consacrazione religiosa ma come anche il matrimonio) per noi è incontrovertibile, inequivocabile. È il nostro essere più profondo.
“Perché sei frate?”.
“Eh, è difficile spiegartelo amico mio… perché amo Gesù Cristo”.
“Che cosa è l’amore? Chi è Gesù Cristo?”.
Ma poi, è così vero che la vocazione consiste nel mio amore a Gesù Cristo? Non è forse il Suo amore a costituire la mia vocazione? E se è così, il mio contributo che cos’è? Mi mancano davvero le parole.
Per provare a spiegarmi mi servirò di un piccolo quadretto visivo di sapore biblico, ma con un leggero retrogusto platonico: immagina di essere addormentato in una camera completamente buia. Ad un tratto entra una persona in modo molto discreto, in punta di piedi, che chiude la porta accostandola piano piano. Questa persona comincia a chiamarti, sussurrando il tuo nome. In un primo momento pensi di stare sognando, ma poi ti rendi conto che c’è realmente qualcuno in camera che parla sottovoce, ma senza tentennamenti.
Nel buio accendi una candela (no, non hai la torcia dello smartphone), e grazie a questo piccolo barlume incominci a intravedere i lineamenti di questa persona, ti rendi conto più o meno della sua altezza, dei tratti del viso, il suo sguardo. Questa figura ti invita ad alzarti, ti parla di un mondo fuori dalla stanza, ti dice che c’è la luce di una cosa che si chiama Sole e che, baciato da esso, vedrai te stesso e Lui.
Ecco, penso che questo scorcio metta sufficientemente a fuoco la questione della vocazione. Essa è l’incontro tra qualcosa di potente, ma non invasivo, che è la voce dell’Ospite nella stanza e qualcosa di fragile e tenue come la fiamma di una candela, che è la nostra libertà che si mette in rapporto con Lui. L’Ospite che è entrato delicatamente in camera senza che noi lo invitassimo non ci fa accorgere della Sua presenza sbattendo un cucchiaio di legno contro un tegame.
Certo, a volte vorremmo che facesse chiasso, che facesse sentire più chiaramente la Sua voce, che rendesse più nitidi i tratti del Suo volto. Invece Lui rimane così, nella penombra, e sussurrando ci invita ad alzarci, ad uscire verso il giorno che ci aspetta fuori dalla camera. Il Signore sa che le nostre pupille soffrirebbero, se passassero improvvisamente dal buio alla luce del pieno giorno. Così a ciascuno di noi è data una candela, una strada, una vocazione per imparare a conoscerLo e amarLo, fino al momento in cui, se avremo custodito la fiamma, tireremo la maniglia della porta e saremo investiti dalla luce del Suo amore.