Sembra incredibile che uomini e donne in abito bianco e nero, fondati più di otto secoli fa, siano ancora pieni di vitalità e continuino a fare scalpore. Domenico di Guzman è un santo affascinante per la sua libertà: era libero di fondare un Ordine diverso da tutti quelli che esistevano prima, era libero di disperdere i suoi frati per mandarli a studiare nelle università europee, era libero perfino di sottomettersi alle decisioni capitolari (cfr. Radcliffe, 1997) e questa libertà di cercare la verità e di predicare in ogni momento è qualcosa che, nel corso della storia, i domenicani hanno messo in pratica seguendo diverse prospettive.
Dalla fondazione dell’Ordine a Tolosa (Francia) nel 1216, i domenicani hanno messo in discussione e affrontato l’ingiustizia sociale, la corruzione del clero e rifiutato la società feudale, una società gerarchica piena di disuguaglianze, alla quale partecipava anche una parte della Chiesa. Il legame con le università e il dialogo profondo con la cultura hanno segnato l’esperienza dei domenicani fin da tempi remoti, perché la ricerca itinerante della verità li ha portati a trovarla anche in luoghi dove il mondo l’ha dimenticata e disprezzata. Avere la possibilità di cercare la bellezza e la bontà della verità di tante persone vittime di conflitti armati, in luoghi come la Colombia, il Venezuela, la Siria, l’Africa, tra gli altri, è stato un lavoro di grande impegno e perseveranza.
Di fronte a un mondo crocifisso dalla sofferenza, dalla solitudine, dalla violenza e dalla povertà, è necessario incarnare il carisma di San Domenico per portare con gioia il Vangelo, fonte di ogni speranza. Tuttavia, questo non è possibile se i frati non si incarnano nel loro tempo e non condividono le crisi di ogni luogo o regione in cui si trovano. Per trasformare la realtà e portare speranza è necessario comprenderla, cioè studiare, entrare in dialogo con la cultura, con il mondo e con la storia, perché lo studio nell’Ordine come ricerca della verità è un cammino di santità (Radcliffe, 1996) che apre la mente e il cuore, è un cammino di vera fraternità ed è un modo per assumere e crescere nell’amore che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta»(1Cor 13, 7).
Questo coraggio con cui il domenicano affronta la realtà e predica nel tempo e fuori dal tempo può essere chiamato con la parola latina parresia, che evoca la necessità di dire la verità e per questo è necessario un coraggio e una forza particolari per predicarla nelle nuove agorà: politiche, filosofiche, atee, scettiche e relativiste, dove il paradigma o canone cristiano è caduto nel dimenticatoio ed è stato assunto il canone edonistico, perché la ricerca del piacere immediato soffoca i nobili obiettivi e le ricerche della felicità e della realizzazione umana, distrugge anche l’utopia come forza motrice della storia e la colloca in un quadro concettuale di fantasia e illusione.
Nel mezzo di una comprensione del reale segnata dal passaggio dalla modernità alla post-modernità, è necessario interrogarsi sul senso della predicazione nel mondo di oggi, perché è un universo in cui tutto sembra diluirsi nel relativismo e in uno scetticismo che lascia l’intelligenza come artificio umano e non come unico strumento per decifrare, comprendere e trasformare la realtà. Hölderlin dirà in una delle sue poesie: «E all’uomo è stata data la più pericolosa delle merci, la lingua… per mostrare ciò che è…». La predicazione deve quindi creare immagini, deve dialogare e rappresentare il proprio contesto; per immagine si intende, secondo la definizione di Heidegger, una rappresentazione che ci formiamo della realtà in cui siamo immersi, la cui essenza consiste nel farci vedere ciò che qualcosa è, ciò che è rappresentato, attraverso il linguaggio, la parola e la scrittura.
Ma per stabilire un dialogo tra la cultura e il messaggio evangelico, è necessario stabilire un’immagine chiara del luogo in cui predichiamo, non perché condanniamo il comportamento sociale del luogo, ma perché è necessario stabilire un dialogo, un gioco dialettico che permetta di costruire il Regno di Dio nella vita quotidiana del mondo, nella comprensione della realtà, nei luoghi concreti. Noi domenicani in America Latina abbiamo un’immagine chiara di ciò che è l’America, siamo in grado di spiegare e rappresentare la nostra realtà da soli? O lasciamo semplicemente che siano gli europei a determinare la nostra visione del mondo?
Per Gutiérrez Girardot, filosofo colombiano, è chiaro che non ci può essere cultura o conoscenza autentica se non si costruisce l’oggetto del proprio lavoro intellettuale. Il continente americano è quell’oggetto. Con quanto detto finora, Gutiérrez propone di desacralizzare il mondo e la nostra coscienza. Con la desacralizzazione si apre la possibilità che la realtà latinoamericana diventi oggetto di conoscenza. In definitiva, il messaggio cristiano può essere collegato a ciò che siamo, perché per rendere conto dell’amicizia di Dio con il suo popolo è necessario rendere conto della storia e dei processi sociali che si sono verificati.
Predicare la salvezza a un universo sconosciuto, o che semplicemente non ha avuto l’opportunità di essere compreso, significa predicare al vuoto, a un terreno arido o sassoso, che in definitiva è un terreno sconosciuto. Per predicare con parresia, cioè con coraggio e verità nel luogo in cui ci troviamo, è essenziale interessarsi al problema della propria tradizione. Guardare al passato ci permette di riflettere sul presente. Ma come può il passato, se inteso come un tempo che è stato ma non è più, spiegare la realtà presente? Per rispondere a questa domanda, è utile comprendere l’idea di passato di Xavier Zubiri: per il filosofo spagnolo, il presente è la derealizzazione del passato.
Le possibilità che decidiamo di realizzare implicano la derealizzazione di altre possibilità che abbiamo lasciato indietro. Tuttavia, il passato continua a vivere nel presente, in un modo o nell’altro. Il passato che sopravvive oggi e che determina ciò che siamo è quello che Alfonso Reyes filosofo messicano chiamava il nostro “passato immediato“, cioè la tradizione intellettuale ispanoamericana, capace di rendere possibile in Ispanoamerica l’esistenza di una “cultura autentica”. Le possibilità lasciateci da questi grandi uomini devono essere accolte per spiegare la nostra realtà ed essere protagonisti del nostro destino storico.
La predicazione domenicana all’alba del Nuovo Mondo
Predicare è rendere presente il messaggio di salvezza, è rendere vivi gli atteggiamenti di Cristo in un mondo concreto e pieno di storie; ma per farlo è necessario comprendere il passato per capire ciò che siamo e poter così entrare in un dialogo reale e costruttivo con ciò che siamo. Ne sono un chiaro esempio i primi frati che arrivarono nel Nuovo Mondo durante il periodo della conquista, perché con i loro sforzi per portare speranza agli indigeni e per mettere in evidenza la loro dignità umana, resero presente il messaggio evangelico. Questa predicazione è frutto di un grande legame tra i frati del Nuovo Mondo e la scuola di Salamanca, che utilizzò le risorse della teologia e della filosofia per rispondere a ogni tipo di preoccupazione. Così, a seguito di questo scambio di idee, il 21 dicembre 1511, quarta domenica di Avvento, a La Española (l’attuale Repubblica Dominicana), si levò un grido impetuoso in difesa dei diritti umani, in difesa della dignità degli indigeni che venivano maltrattati e violati. Questo grido della predica di Antonio de Montesinos segnò l’inizio della difesa degli indigeni e della lotta contro la legittimità della conquista. Quel giorno, Antonio de Montesinos, come la voce che grida nel deserto, salì all’ambone e, dopo aver fatto un’introduzione e aver accennato al tempo dell’Avvento, ardendo di sete di umanità, pronunciò la famosa predica firmata dalla comunità conventuale. È quindi possibile intravedere che il potere profetico di quest’uomo risiede nel fatto che è diventato un fratello per gli indigeni.
Questo grido, frutto del fuoco di Dio, che lasciò il pubblico molto agitato e ringhioso contro i frati, giunse alle orecchie del Re. Forse il frutto più grande di questa predica fu la conversione del sacerdote encomendero Bartolomé de las Casas, che da quel giorno, con una penna tagliente e una grande oratoria, si unì al profetismo di Santo Domingo. Questa disputa mise in crisi l’impresa di conquista, per cui si decise di legiferare in materia, ma ciò non diede i frutti sperati dal diritto delle nazioni promulgato da Francisco de Vitoria.
Così, con questo esempio di predicazione domenicana nell’isola di La Española, è possibile intravedere come i frati abbiano risposto con la forza del loro profetismo alle esigenze locali; hanno assunto la loro storia e hanno saputo rispondere con la ragione e la fede alle necessità di un popolo, avvicinando tutti all’amicizia con Dio. Pertanto, è possibile proporre che, per rispondere con vigore alla verità predicata, è necessario testimoniare e comprendere la realtà storica locale, in modo che la voce profetica sia un segno di speranza che si traduce in gioia e carità fraterna; questa speranza deve incitare a una maggiore libertà, a una lotta all’ultimo sangue contro il dolore e l’ingiustizia. È una speranza che cerca di diffondere e costruire il Regno di Dio sulla terra, come fecero i primi frati che arrivarono in America.
In definitiva, la ricerca della verità, la testimonianza della vita e il vivere in amicizia con Dio sono i punti fondamentali su cui si rinnovano il predicatore, l’Ordine e il mondo, perché è solo nella sinergia tra il passato e il futuro che il presente ha senso; è solo nella sinergia tra il singolo e la comunità che la predicazione è capace di trasformare la realtà; è solo nella sinergia tra la realtà dell’Ordine e la realtà locale che la predicazione è efficace. Insomma, la sinergia che si crea tra la vita stessa e la missione dell’Ordine, ci pone di fronte a sfide per rispondere a un tempo e a un contesto concreti, seguendo il cammino di San Domenico, tutti gli elementi che compongono la vita domenicana devono essere al servizio della predicazione, che deve essere dinamica, perché sempre in costante dialogo e movimento, come si esprimeva Sant’Agostino riferendosi al suo processo di interiorità che cercava di trovare e, dopo aver trovato, di continuare a cercare. Questa itineranza ha permesso all’Ordine di rinnovare il suo carisma, di essere in prima linea, di rispondere con speranza e gioia alle comunità, predicando il Cristo risorto con la sua testimonianza di vita.
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Riferimenti bibliografici (consultati dall’autore in lingua spagnola):
RADCLIFFE, Timothy: Libertad y responsabilidad dominicana. Carta a la orden en la fiesta de San Antonino, Roma 1997.
RADCLIFFE, Timothy: El manantial de la esperanza. Carta a los Frailes dado en Santa Sabina, Roma 1996.
SANT’AGOSTINO: Confesiones. Biblioteca de autores cristianos, Madrid 2017.
BIBLIA DE JERUSALÉN: (Ed. Rev.) DESCLEE DE BROUWER, Bilbao 2009.
HEIDEGGER, Martin: Arte y poesía. Fondo de Cultura Económica, Madrid 1995.
HEIDEGGER, Martin: Holderin y la esencia de la poesía. traduzione di Antonio M. Bergmann y Cayetano Betancur. Universidad católica Bolivariana. Reperito al link: https://revistas.upb.edu.co/index.php/upb/article/viewFile/3444/3037
MARTINEZ DÍEZ, Felicísimo: Ve y predica. La predicación dominicana en los siglos XIII y XXI. España: EDIBESA, 2015.
GUTIERREZ GIRARDOT, Rafael: Hispanoamérica: Imágenes y perspectivas. Editorial Temis, Bogotá 1989.
GUTIERREZ, Gustavo: Texto del sermón de Antón Montesino según Bartolomé de las Casas y comentario de Gustavo Gutiérrez. Reperito al link: http://www2.dominicos.org/kit_upload/file/especial-montesino/Montesino-gustavo-gutierrez.pdf