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Un grave flagello rimane ancora da estirpare dalla faccia della terra, dal cuore degli uomini: la guerra.

Un flagello che sovverte gravemente i rapporti tra i popoli gettandoli in un regime di freddo terrore e incertezza, dal forte sentore di morte e dallo strascico penoso di macerie e miseria. Questo flagello, lo sappiamo bene, è tornato a insanguinare le plaghe orientali d’Europa.

Ai fischi delle sirene d’emergenza, al fragore delle bombe che distruggono vite ed edifici, alla concitazione estrema di chi cerca in un ultimo slancio di speranza la via della frontiera, combattendo una ridda di sentimenti che mai nessuno si augurerebbe di vivere, si oppone il commosso raccoglimento di una magnifica Divina Liturgia.

E’ quello che è avvenuto domenica scorsa, 27 febbraio, in cattedrale a Bologna: l’arcivescovo della città, il card. Matteo Zuppi, ha invitato nel primo pomeriggio la comunità ucraina di rito greco-cattolico a celebrare la sua Divina Liturgia (la Messa) come segno di vicinanza e fraternità ecclesiale.

Erano comprensibilmente molti i visi segnati da profonda commozione, intenti con la mente a ripercorrere le strade natie, a visitare col pensiero e con la trepidazione i volti di parenti e amici residenti in patria.

La divina liturgia ucraina e la Madonna di Zarvanytsia

Una Divina Liturgia, quella di domenica scorsa, tinta ovviamente di una accorata supplica per la pace, alla presenza anche di molti cattolici latini e orientali che, assieme alla comunità ucraina, gremivano la cattedrale.

Una liturgia che, da buona figlia della grande famiglia dei riti bizantini e dunque estranea alla predilezione latina per la stilizzazione dei segni e la brevità, splende per abbondanza e complessità di segni e momenti: presenza dell’iconostasi, molteplici incensazioni, utilizzo molto enfatizzato di veli sacri a coprire i santi doni sottolineandone la sacralità, piccole processioni, inchini molto pronunciati (anche all’indirizzo dell’arcivescovo metropolita Zuppi che assisteva), moltissimi segni di croce, oltre alla ricorrente, esplicita monizione: State attenti!, utilizzata, tra gli altri momenti, anche prima del canto del Vangelo.

Una grande armonia che si dispiega nel canto incessante, ora tra i concelebranti, ora tra il coro popolare: una dolce cantilena dai toni struggenti, anche per chi non afferra il significato dei singoli vocaboli, che sembrava quasi voler trasportare un pezzo di Cielo su questa martoriata terra.

Infine, al termine della celebrazione, un omaggio all’icona della Madonna di Zarvanytsia rimasta nella cattedrale bolognese per l’intera settimana.

Zarvanytsia, nell’ovest del Paese, è il maggior santuario mariano dell’Ucraina, paragonabile per quelle terre a Lourdes o Fatima, come sottolineava il parroco della comunità ucraino-cattolica in Bologna don Mykhaylo Boiko.

Lì la Madre di Dio apparve nel 1240 ad un monaco in fuga da Kiev assediata dai Mongoli; come segno di consolazione fece sgorgare una sorgente d’acqua e donò al monaco un’icona ivi conservata, la cui corona fu benedetta nel 1867 dal beato Pio IX.

La Chiesa in Ucraina: un Paese molti riti

Nonostante la metà della popolazione si dichiari areligiosa, l’altra metà è costituita in larga parte da cristiani ortodossi e, in misura minore da cattolici (di rito bizantino-ucraino, latini, ruteni ed armeni).

I cattolici ucraini sono per la maggioranza di rito bizantino-ucraino (per quanto esista anche una provincia ecclesiastica di rito latino, guidata dall’arcivescovo di Leopoli), sotto la guida dell’arcivescovo maggiore di Kiev-Halic.

Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina,  dal suo rifugio antiaereo nei locali sottostanti alla Cattedrale della Resurrezione di Kiev dove si trova per sfuggire ai bombardamenti incalzanti, ogni giorno invia ai fedeli un messaggio di incoraggiamento, testimoniando come la Chiesa, anzitutto nella sua gerarchia, non abbandona il popolo ucraino, nonostante la desolazione che avanza e minaccia di inghiottire persino asili e reparti ospedalieri di maternità.

L’arcivescovo maggiore, dal quale dipendono quattro arcieparchi e sette eparchi, oltre a cinque esarchi (un po’ come i vescovi suffraganei dagli arcivescovi metropoliti per noi cattolici latini), ha dichiarato:

«La nostra Chiesa sarà sempre con il suo popolo; abbiamo l’esperienza della guerra all’Est dell’Ucraina ormai da 8 anni. Cerchiamo di organizzare bene la rete degli aiuti umanitari, metteremo a disposizione della gente, in caso di emergenza, le nostre chiese e gli edifici che abbiamo in disposizione per salvare ogni vita. Ricordiamo che le nostre chiese erano già diventate ospedali da campo nei tempi della Rivoluzione della dignità. Continuiamo chiedere alla comunità internazionale di essere uniti con noi, di credere nell’Ucraina che oggi difende la pace in Europa a costo del sangue dei propri figli. Ogni sforzo su ogni campo è molto importante»1.

Nella sventura, la cattolicità della Chiesa

La Caritas, al pari di molte famiglie religiosi, tra cui anche noi Domenicani,  sta intervenendo in loco con una ventina di centri di soccorso dedicati non solo all’erogazione dei pur fondamentali aiuti materiali, ma anche cercando di fornire supporto psicologico.

Nazioni vicine, come Moldavia e Romania offrono soccorsi agli sfollati.

Anche in Italia, oltre alle raccolte fondi e agli inviti di preghiera con la comunità ucraina che molti vescovi hanno diramato nelle loro diocesi, la Chiesa sta pensando a mettere a disposizione canoniche e locali sfitti per gli eventuali profughi.

In questa sventurata congiuntura storica, come già molte volte nel corso dei secoli, si rinsaldano nella carità i legami tra le chiese locali, si manifesta la cattolicità della Chiesa: la sua maternità universale che abbraccia tutti i popoli e che si esprime nella comunione tra chiese particolari, nella varietà e nell’ingegno dei tanti modi di rispondere all’appello alla comunione lanciato dal papa Francesco e riecheggiato dai singoli vescovi.

Del resto, per quanto riguarda l’Italia, nella Penisola vivono circa 250 mila ucraini, di cui 70 mila cattolici. Per questi ultimi, due anni fa papa Francesco ha eretto l’Esarcato apostolico d’Italia (con sede a Roma), una sorta di diocesi personale retta secondo i canoni delle chiese orientali, oggi affidato all’esarca Dionisij Ljachovicz.

La forza della preghiera nella battaglia

Qualcuno forse dirà: a che serve pregare in questa circostanza? A che giova magnificare gli splendori del culto orientale? Non è forse un rischiare di fuggire dalla realtà per trovare riparo in una devota malinconia?

Non ci si può limitare agli atti di solidarietà, pur doverosi e manifestativi della carità che abita i cuori. Occorre pregare la fonte della carità, la misericordia in persona: Dio stesso. Egli, incarnandosi, non ha ricusato di subire le conseguenze delle umane ingiustizie e cupidigie: dovette fuggire ancora infante dalla sua patria riparando coi genitori in Egitto per le scelleratezze di un tiranno megalomane (Erode); dovette subire l’estremo supplizio della croce, oltre alle umiliazioni dei notabili del suo popolo, per la strana combutta tra occupanti romani e ambigui governanti giudei.

Cristo conosce fino in fondo il cuore dell’uomo; conosce anche che esso spesso non trova requie ma è tormentato su più fronti da uno stato di belligeranza continua. E siccome la bocca dell’uomo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda succede che spesso intere classi sociali, intere nazioni, esacerbate dal germe nefasto del male che prospera in tanti cuori, si sollevino crudelmente le une contro le altre dando luogo a sofferenze e orrori di atrocità inaudita.

Dunque non è affatto vano pregare Dio in questa circostanza.

Anzi, preghiamo con particolare insistenza e offriamo qualche penitenza perché la violenza in terra ucraina vada spegnendosi e possano presto realizzarsi nella comunione universale della santa Chiesa diffusa tra tutte le nazioni le parole dell’apostolo Paolo:

«Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.


Cristo infatti è la nostra pace,
colui che di due ha fatto una cosa sola,
abbattendo il muro di separazione che li divideva,
cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo,
per mezzo della croce,
eliminando in se stesso l’inimicizia.
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani,
e pace a coloro che erano vicini.»2

1 Dal sito Agensir: https://www.agensir.it/quotidiano/2022/2/24/ucraina-arcivescovo-maggiore-shevchuk-rifugiato-nel-sotterraneo-della-cattedrale-della-resurrezione-di-kiev/, consultato il 1° marzo 2022.

2 Ef 2,4-10. 13-17.

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Nato tra le maestose giogaie trentine nel maggio 1996, cresciuto tra i boschi e campi di un grazioso paesino dell’alta Valsugana (sì, quella della canzone degli alpini…), dopo la maturità scientifica, indeciso se entrare in seminario diocesano, si orienta infine alla vita claustrale delle bianche lane. Ha emesso professione semplice nel settembre 2019 e attende ai filosofici studi.