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La III Domenica di Avvento ha un posto particolare nel nostro cammino di preparazione al Natale; è comunemente chiamata Domenica Gaudete e, come vedremo, intende non tanto invitare ad una gioia infantile quanto mostrare su cosa si fonda la letizia che sempre accompagna la vita cristiana. Prima di andare avanti c’è però una consuetudine contro cui “devo” schierarmi: quella di spendere una parte dell’omelia per giustificare il fatto che sto vestendo di rosa. Sono certo che avete, per anni, sentito vescovi, presbiteri e diaconi spiegarvi imbarazzati, magari con complesse ragioni teologiche, perché assomigliano a confetti rosa; ebbene, non intendo tediarvi con simili giustificazioni, quasi questo colore mi sminuisse. Prendiamo semplicemente atto di una cosa: il rosa è un colore allegro e questo, assieme alla vicinanza cromatica con il viola, ne giustifica l’uso.

Scherzi a parte, questo particolare colore liturgico certo contribuisce a rendere chiaro quanto centrale sia oggi il tema della gioia. Eppure il Vangelo di questa domenica, tratto dal Prologo di san Giovanni (cf. Gv 1,6-8.19-28), non sembra fare alcun accenno alla felicità; d’altro canto tale tematica è invece presente nella I Lettura (cf. Is 61,1-2.10-11) , nel testo paolino (cf. 1 Ts 5,16-24) e nello splendido cantico del Magnificat (cf. Lc 1,46-54) che oggi sostituisce il salmo. Credo sia quindi lecito chiedersi quale sia il principio d’unità della Liturgia della Parola di questa terza domenica di Avvento.

Iniziamo dal Vangelo: san Giovanni Evangelista presenta il Battista come il perfetto esempio del testimone di Cristo. Non solo viene esplicitamente associato a tale funzione ma l’intero dialogo con gli scribi ed i farisei ha lo scopo di mostrare la caratteristica che lo rende perfetto per tale ufficio. Egli rifiuta tre identificazioni: quella con Cristo, quella con Elia e lo stesso titolo profetico. Se nel primo caso ha evidentemente ragione, negli altri due la cosa appare più dubbia; non solo infatti l’interezza della sua predicazione ha un forte legame con il profetismo antico, ma Gesù stesso lo identifica con quell’Elia che deve venire (cf. Mt 11,11-15). Questa umiltà non è ovviamente fine a se stessa ma ha uno scopo ben preciso: quello di consentire al Battista di sparire.

Chi è infatti il perfetto testimone, il messaggero ideale? Colui che nulla aggiunge o sottrae a ciò che trasmette, qualcuno che sparendo diviene voce di una Parola non sua, finestra aperta su di un paesaggio che non ha composto. La perfezione del Battista come testimone del Messia sta proprio nella sua precisa volontà di farsi a tal punto da parte da impedire a chiunque, perfino a se stesso, di frapporsi fra l’uomo ed il suo Signore.

Tale atteggiamento è presente anche nel Magnificat e nel testo di Isaia. La Vergine Maria cerca di sparire, trattenendo per sé solo l’epiteto di “umile serva”; la sua gioia e gli onori che le vengono tributati sono fondati esclusivamente sulle opere che Dio ha compiuto in lei ed attraverso lei. Ella è perfetta testimone del Signore e del Redentore che porta in grembo proprio perché nulla aggiunge o frappone a ciò che l’Onnipotente ha detto e fatto. Similmente, il profeta Isaia non si attribuisce alcun merito, né per quanto annuncia né per l’atto stesso della testimonianza. Egli è stato unto senza merito da quel Signore che l’ha rivestito, proprio come uno sposo, di uno splendore non suo e che, come un contadino, l’ha reso fertile e vitale di Sua iniziativa.

Come san Paolo ci mostra nella seconda lettura, colui che testimonia la Potenza e la Bontà di Dio, e la Salvezza del Suo Cristo, è chiamato ad un simile atteggiamento. Egli deve mettere da parte la sua volontà, il suo ego e tutto ciò che lo vorrebbe protagonista per rendere meglio evidente la sola cosa davvero importante: l’opera di Salvezza di Dio. Si tratta del massimo atto di umiltà, di un abbandono così totale all’azione dello Spirito Santo che, con l’Apostolo, si arriva ad affermare che non siamo più noi a vivere ma Cristo vive in noi (cf. Gal 2,19-20).

Ammettiamolo, questa prospettiva ci lascia un po’ perplessi. Umiliarci fino a sparire sembra sminuire quella bellezza e quell’importanza che sappiamo sussistere in noi, nel nostro essere persone umane. In fondo, non v’è nulla di più naturale, se ben disciplinato ed ordinato, dell’amare noi stessi! Come può allora il Signore chiederci di umiliarci al punto da sparire, da essere nulla più che una voce nell’aria? La chiave per risolvere la questione è la gioia.

Nel momento in cui noi, testimoni privilegiati di Dio, ci facciamo invisibili per rendere più evidenti le Sue Perfezioni, ciò che resta della nostra identità è la letizia, l’incontenibile felicità di chi, svuotatosi di sé, si trova non annullato ma ricolmo di una vita nuova. La gioia che manifestiamo mostra come l’annullarsi in Dio ci abbia in verità valorizzati, rende evidente che il vuoto creato in noi non distrugge ma, al contrario dona la vita nuova. Comprendiamo allora la gioia del profeta che, rivestito di Dio, gioisce della speranza di cui è portatore; capiamo anche l’esultanza della Vergine Maria la quale, donatasi totalmente al Signore, si scopre destinata ad una Gloria che altrimenti mai avrebbe sperato. Familiare infine ci diventa la lieta serenità del Battista che nel diminuire per Cristo viene riconosciuto dal Signore stesso come più grande d’ogni figlio di donna.

Cari fratelli e sorelle, la vita cristiana è fondata sulla gioia, su di una letizia che è frutto e strumento del nostro essere testimoni di Cristo. Essa rende manifesta l’esistenza dell’uomo nuovo, nato nello Spirito e concepito nella Grazia, di un individuo che, svanendo in Dio, ha trovato la sua pienezza. Il Santo Natale non c’invita a fingere che la sofferenza non esista o che il dolore sia mera immaginazione ma, al contrario, ci mostra come l’ombra della croce gravi sempre su tutti noi. Tuttavia ci rivela anche una verità incontestabile e meravigliosa: nessun tormento su questa terra potrà sottrarci la gioia poiché essa, nella comunione con Cristo, è inscritta a fondo nella vita rinnovata donataci dallo Spirito.

Se comprendiamo questa verità allora saremo anche in grado, come la Vergine Maria ed il Battista, di farci mere voci del Signore; non temeremo infatti la leggerezza dell’aria ma, anzi, in essa scorgeremo tutto il peso di una gioia e di una lode che sopravviverà al cosmo stesso.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it