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L’umile lavoratore della Vigna

«Un semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore». Con queste parole, «dopo il grande Papa Giovanni Paolo II» si era presentato al mondo il timido Joseph Ratzinger, che con il suo passo felpato, si era inserito nel cammino dell’amato predecessore. Fin da subito mi aveva colpito la comunione e la continuità con il suo predecessore. Guardando alla sua vita, non possiamo fare altro, che riconoscere la semplicità e l’umiltà di un uomo che certamente è stato chiamato a responsabilità grandi, a ruoli che possono apparire prestigiosi anche nella Chiesa. Tuttavia il ruolo e le grandi responsabilità non lo hanno mai insuperbito. Soprattutto non ha mai inseguito il successo e la carriera. Egli è rimasto sempre se stesso, il piccolo Joseph.

Quando Joseph Ratzinger apparve per la prima volta dalla loggia centrale della basilica di San Pietro ci aveva anticipato che lo consolava «il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti». E così, l’11 febbraio 2013, ha riconosciuto l’insufficienza delle sue forze davanti alla situazione della Chiesa e ha lasciato ad altri il timone.

Il dono di una vocazione e un legame speciale

La mia vocazione è da sempre legata alla persona del Papa. Non per fanatico papismo ma per grazia, perché il Signore mi ha parlato attraverso l’ultimo tratto della testimonianza sofferta di Giovanni Paolo II come anche mediante la predicazione e la testimonianza di Benedetto XVI. Sebbene la persona del Papa sia un riferimento necessario per la fede di un cattolico a prescindere dalla persona chiamata ad assumere questo servizio in un dato momento della storia, devo però riconoscere che è un legame spirituale intenso quello che si è creato tra me e Benedetto XVI.

Mi sono sentito realmente accompagnato nel cammino di fede e vocazionale. È un po’ forse quello che dice Gesù nel Vangelo: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). Questo è stato il rapporto tra me e Joseph Ratzinger una profonda e intima comunione.

L’amore per la Verità che salva

Proprio mentre Joseph Ratzinger diventava Papa, in me cresceva un desiderio di fare chiarezza in merito alla fede, desideravo andare più in profondità e non rimanere in superficie. La scoperta di tante immagini distorte su Dio e sulla Chiesa hanno fatto sorgere in me questa esigenza.

L’esigenza di non accontentarmi dell’opinione dominante o della verità a buon mercato e “per sentito dire”, ma di coinvolgermi in prima persona e più direttamente con l’essenza della fede. La scoperta della persona di Joseph Ratzinger avviene proprio nel 2005 qualche giorno prima della sua elezione. In famiglia abbiamo sempre seguito con intensa partecipazione la via crucis al Colosseo del Papa. Quell’anno le meditazioni erano proprio del Card Ratzinger. Rimasi colpito dalla descrizione circa la situazione della Chiesa: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!».

Da queste sue parole emergeva un bilancio drammatico. Al tempo stesso però si poteva cogliere una fede incrollabile in Cristo! Quel cardinale mi aveva profondamente colpito. La sua fede mi aveva conquistato. Mi diceva che il peccato e lo scandalo nella Chiesa non hanno l’ultima parola anche quando possono costituire un ostacolo per la fede. La verità e l’amore di Cristo restano il fondamento inattaccabile. Si può dire che attraverso quelle riflessioni conobbi per la prima volta il futuro papa.

Una mite fermezza e una chiara concezione del ministero

Fin da subito sono rimasto affascinato dal tratto mite, umile, direi quasi timido di Benedetto XVI. Tuttavia non è mai venuta meno la sua chiarezza e fermezza quando si trattava della fede in Gesù. Mi ha conquistato la sua concezione del ministero. Per lui il sacerdote non annuncia opinioni personali, bensì è un messo, è chiamato all’espropriazione di se stesso, egli deve aprire il proprio “io” per far entrare il “Tu” di Cristo.

Il coraggio di apparire perdenti e “fuori moda”

La libertà di Ratzinger mi ha sempre affascinato. La sua vita ci dà prova di questa grande libertà di spirito. Dal 1981 al 2005 è il “Custode della fede” un compito di grande responsabilità, ma anche piuttosto impopolare. La sua fedeltà alla verità di Cristo gli è costata cara in termini di immagine e popolarità. Ma il successo non è stato mai la misura del suo lavoro. L’unico interesse? L’amore per la fede dei semplici, che non deve essere ingannata! Ammirabile il suo coraggio nel difenderla dai mistificatori e dai mercenari, da far propria l’umile consapevolezza che la fede va servita e non si può mercanteggiare con essa perché non è nostra, la fede non si può mettere ai voti, non si può esporre alla mercé di chiunque, perché non ne siamo noi i padroni. Di questo Joseph Ratzinger ne è convinto fino in fondo e questa convinzione è parte della sua eredità.

Una viva consapevolezza: noi non siamo la Verità!

Se la fede non è nostra vuol dire che non possiamo trattarla con arroganza occorre accoglierla, comprenderla, e per fare questo bisogna camminare. Ratzinger è sempre rimasto in cammino. Anche da Papa. Lo abbiamo sentito dalle sue parole anche quando ha deciso di ritirarsi “nascosto al mondo” come semplice pellegrino.

La fisionomia dell’autentico uomo di Chiesa

Henry De Lubac, uno dei grandi teologi del novecento, in una sua opera intitolata Meditazione sulla Chiesa dedica un capitolo alla descrizione del vero uomo di Chiesa.

L’autore così dice: «La Chiesa ha rapito il suo cuore. È la sua patria spirituale. […] Nulla di ciò che la tocca lo lascia indifferente o insensibile. Egli si radica in essa, si forma a sua immagine, s’inserisce nella sua esperienza, si sente ricco delle sue ricchezze. […]. Uomo della Chiesa, egli ne ama il passato, ne medita la storia, ne venera e ne esplora la Tradizione. Si guarda dal confondere l’ortodossia o la fermezza dottrinale con la grettezza e la pigrizia mentale e si ricorda che uno dei suoi compiti è di illustrare agli uomini del suo tempo le cose necessarie alla salvezza. Ha grande cura di non lasciare che una idea strana prenda a poco a poco il posto della persona di Gesù Cristo. […] Quando non può impedire la polemica, non si lascia per lo meno inasprire da essa, e le manovre di coloro che san Paolo chiamava già i “falsi fratelli” non lo inducono a ricorrere alle stesse armi […]. Tutto il suo comportamento dà a vedere che lo spirito fortificante che ha ricevuto è nello stesso tempo spirito di amore e di sobrietà […]. Egli soffre dei mali interni della Chiesa […]. Vorrebbe sempre che in tutti i suoi figli la chiesa celebrasse una Pasqua di sincerità e di verità […]. Non è un fanatico del passato, si sforza piuttosto di discernere gli spiriti […]. L’uomo di Chiesa rimane sempre aperto alla speranza. L’orizzonte per lui, non è mai chiuso […]. Non si stupisce di dovere talvolta seminare nelle lacrime»1.

Rileggendo queste parole, non ho potuto fare a meno di rivederle “incarnate” nel profilo e nel ministero di Benedetto XVI. Anche questo appartiene all’eredità che mi lascia il Papa emerito. Lui è un vero uomo di Chiesa perché l’ha amata anche quando «la più grande persecuzione alla Chiesa e al Papa non veniva dai nemici fuori, ma dai nemici dentro la Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa» (parole sue!). Un amore, il suo, che lo ha condotto ad attraversare la via impopolare della purificazione, a differenza di altri che volevano salvare “l’istituzione”!

Benedetto XVI se ne va, ma la sua eredità resta. Condivido l’analisi di Peter Seewald il quale osservava giustamente nel 2013 che non è un caso che il Papa uscente abbia scelto il Mercoledì delle Ceneri per la sua ultima grande liturgia. Poteva andar via suonando le trombe davanti a sé e invece no! Ci ha lasciato una eredità impegnativa. «Con quell’ultima liturgia penitenziale voleva dire disintossicatevi, rasserenatevi, liberatevi dalla zavorra, non fatevi divorare dallo spirito del tempo, non perdete tempo, desecolarizzatevi! Dimagrire per aumentare di peso è il programma della Chiesa del futuro». Ora tocca noi andare avanti, e far vivere nella Chiesa il patrimonio dottrinale e spirituale del caro Papa teologo. Lo immaginiamo alla finestra della casa del Padre, dalla quale ci vede e ci benedice: Sì! Ci benedica Santo Padre!


1 H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, 8 Voll., Jaka Book, Milano 2011, pp. 165-166.

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Veritas. È uno dei motti del nostro ordine. Che bella questa parola. Sembra che sia scomparsa dal nostro vocabolario, dai nostri discorsi, oserei dire, anche dalle nostre omelie. Veritas. Che bella parola. Eppure non interessa più. Basta osservare nei salotti televisivi quanto successo riscuotano i cosiddetti “opinionisti”. Il nostro tempo sembra aver fatto una scelta apparentemente vantaggiosa: ha preferito l’opinione rinunciando alla Verità. Tutti “vendono” le loro opinioni, tutti si sentono autorizzati a dire e a commentare qualsiasi cosa. Ecco che allora desidero essere un cercatore della Verità! Non mi accontento delle opinioni anche se le ascolto volentieri! Fin da piccolo ho avuto questo desiderio per poter rispondere alla grandi domande di senso! Frate perché? Per mettermi a servizio della Verità in Persona: Gesù Cristo.