Il Vangelo che la Chiesa ci offre, nel rito romano, il giorno prima di Pentecoste, il sabato della settima settimana del Tempo di Pasqua, non è soltanto un invito ad identificarsi con l’apostolo Pietro, che, dopo aver ricevuto per tre volte la domanda d’amore di Gesù, viene investito dall’intimazione di Gesù: “Tu seguimi”. È anche l’affermazione, da parte di Gesù, di una sorprendente verità, quasi un antidoto contro l’imperativo categorico pseudo-catechistico. In verità, in verità, vi dico: non è necessario che tutti seguano Gesù (cfr. Gv 21,20-25). Pietro si interroga sul futuro religioso dell’apostolo Giovanni, ma egli non sarà più per te, Pietro, come il giorno di Pasqua, compagno di corsa. Non ti sfreccerà più accanto per poi aspettarti come un figlio, come un fratello più piccolo. A te la corsa, ora. C’è infatti un genere di persone che non hanno bisogno di seguire Gesù: quelli che abitano in lui. Anch’essi vanno ovunque lui vada, ma perché “rimangono” in lui. Forse perché amato, egli è precipitato dentro a quel petto sulla cui pietra riposava l’orecchio.
Chi vive in lui, fa tutt’uno con lui: io in Dio non sono altro che Dio, perché Dio è assoluta semplicità. In Dio gli opposti non sono conciliati, ma scoperti come divinamente identici. Spesso ci lamentiamo che bisogna essere tolleranti, ma anche fermi, miti, ma anche accorti, affettuosi, ma anche indipendenti. Ebbene, Dio non è tollerante ma fermo, o mite ma accorto, o affettuoso ma indipendente, né fermo ma tollerante, o accorto ma mite, o indipendente ma affettuoso. E non è neanche tollerante e fermo, mite e accorto, affettuoso e indipendente. Egli è tollerante, e cioè fermo; mite, e cioè accorto; affettuoso, e cioè indipendente. Perché tutto è uno, in Dio. Così anche noi: “Siano una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi… perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me” (cfr. Gv 17,21-23).
Essere talmente uniti al Padre e al Figlio da… spirare lo Spirito Santo. Vediamo qui la Pentecoste non dalla solita prospettiva, cioè quella degli apostoli, ma dal punto di vista di Gesù, nostro centro, nostra dimora, nostro tutto. Noi con lui vediamo lo Spirito procedere dalla nostra unità con il Padre, perché siamo tutti una sola cosa, in lui. Eccoci elevati a tale dignità da poter offrire al mondo tenebroso il più grande, l’unico soddisfacente dei doni: Dio, cioè noi stessi. Il dono che dona sé stesso, il regalo spirituale che è il vero cuore e la vera anima di tutti i regali materiali: un bicchiere d’acqua, una casa, la meraviglia delle vette. Non è eresia, ma orgoglio di Cristo: “Dall’intimo di chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua sgorgheranno dal suo seno” (cfr. Gv 7,37-38; Gv 4,14).
Ma è veramente possibile questa cosa che sembra il massimo degli insperabili, la più sovversiva delle presunzioni, il più innaturale degli approdi? Essere talmente uniti in Dio da essere davvero in grado di dar inizio ad attività puramente divine. Qui non si tratta di esser santi, ammesso che sia cosa da poco, ma di essere perfetti in tutto. Un’unione di amore così forte, così infinita, da garantire una perfetta identità. Questo impossibile degli impossibili è possibile, perché Gesù l’ha promesso, pregando il Padre per la nostra perfetta unità. Sì, ma quanta differenza tra come dovremmo essere e come poi di fatto siamo, e siamo sempre. Ma quale fedeltà, ma quale impeccabilità, ma quale integrità! La nostra indegnità non rende impossibile di fatto ciò che sarebbe possibile per parte di Dio? No. Infatti possiamo, anzi dobbiamo sempre dire:
“Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto. Ma di’ soltanto una parola, e io sarò salvato” (cfr. Lc 7,6-7).