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Forse sono un po’ in anticipo. Ma ho deciso che nella prossima letterina natalizia a Gesù Bambino chiederò di ricevere in dono una copia del “Messale Romano”. Una copia tutta per me, probabilmente fresca di stampa con la nuova (terza) traduzione in lingua italiana approvata dalla nostra Conferenza Episcopale alcuni mesi orsono. Sono sicuro che mi sarà utile nell’esercizio del ministero, come pure per approfondire gli studi liturgici che desidero intraprendere. Eppure alla base della mia richiesta non vi è, anzitutto, il desiderio di poter disporre di un valido strumento. Sono piuttosto persuaso che il Messale, in tutti i segni e le parole che lo compongono, debba essere considerato ed utilizzato come un testo spirituale capace di favorire la vita interiore di tutto il Popolo di Dio.

Prendiamo il caso dell’orazione detta “Colletta” che in ogni Celebrazione Eucaristica viene pronunciata dal sacerdote presidente dopo l’atto penitenziale e, quando previsto, l’antico inno del “Gloria”. Il celebre liturgista Vincenzo Raffa insegna che scopo specifico di questo testo dovrebbe essere «introdurre lo spirito dei fedeli nel mistero del tempo liturgico o della festività e, comunque, di esprimere il carattere della celebrazione»1.

Personalmente ho sempre avuto un debole per le collette del tempo di Quaresima. Testi semplici, alcuni recenti, altri tramandati da secoli, capaci di guidare i cristiani a vivere con frutto il cammino penitenziale verso la celebrazione sacramentale del Mistero pasquale. Ultimamente ho potuto concentrare la mia attenzione sul testo dell’orazione recitata durante il martedì della prima settimana di Quaresima:

«Volgi il tuo sguardo, Padre misericordioso, a questa tua famiglia, e fa’ che superando ogni forma di egoismo risplenda ai tuoi occhi per il desiderio di te».

Forse il semplice ascolto di questa preghiera durante l’azione liturgica non permette di comprendere immediatamente quanto essa sia preziosa. Proviamo allora a riflettere insieme con maggiore calma.

Il testo esprime i sentimenti della Chiesa, che, dopo quasi una settimana di penitenza, può focalizzare un insidioso nemico da combattere con determinazione non senza, come ben si comprende, l’aiuto di Dio: l’egoismo.

Esso infatti deve essere considerato la radice di tutti i mali, il germe di ogni peccato. Egoista è colui che pensa di bastare a se stesso e in forza di questo colloca al centro dell’universo soltanto il proprio “io” (in latino “ego”) e le sue voglie. Nella vita dell’egoista tutto il resto passa in secondo ordine: la giustizia, i doveri, le necessità delle altre persone e finalmente lo stesso Dio con la sua legge così sintetizzata da Gesù di Nazaret: «“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti»2.

Non è allora casuale che a questa colletta faccia seguito, nella Liturgia della Parola, la proclamazione di un celebre brano del Vangelo di Matteo:

«Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe»3.

Gesù è consapevole che l’egoismo è capace di nascondersi in ogni ambito della vita umana. Dalle sue parole emerge che neppure la preghiera è esente da questo: lo dimostrano le tante parole sprecate dai pagani le cui aspirazioni sono ben distanti da quel “desiderio di Te” che dovrebbe far risplendere gli uomini agli occhi di Dio. Ma egli non resta indifferente alla fragilità dei suoi figli.

Osserviamo quale meraviglia è avvenuta nelle nostre chiese: l’assemblea liturgica ha chiesto ad una sola voce di essere liberata dall’egoismo e il Signore ha generosamente e sollecitamente risposto facendo ancora una volta dono delle parole del Padre Nostro, antidoto potente contro tale insidioso avversario.

La preghiera del Signore è infatti rivolta al Padre. Ci ricorda che da lui dipendiamo, che verso di lui devono essere rivolti i nostri cuori, che prima di ogni altra cosa la venuta del suo Regno e il compimento della sua volontà devono essere desiderati.

Come dimenticare, poi, che il Padre Nostro è sempre recitato al plurale? Esso ci ricorda che non siamo mai soli. Con il Battesimo siamo diventati membri della Chiesa e così possiamo guardare ai nostri fratelli con uno sguardo rinnovato: essi sono figli del nostro stesso Padre, come noi sono in cammino verso di lui, a lui si rivolgono con le nostre stesse parole. Grazie alla preghiera che Gesù ci ha insegnato siamo condotti a tendere la mano al nostro prossimo con generosità sapendo che il pane quotidiano che Dio ci dona non è “mio”, bensì “nostro” e potremmo trovare gioia e consolazione nel rimettere scambievolmente quei debiti che manifestano la comune fragilità.

In ogni celebrazione eucaristica la preghiera del Signore diverrà allora il primo frutto tangibile dell’“epiclesi”, di quella invocazione della Chiesa che «prega il Padre di mandare il suo Santo Spirito (o la potenza della sua benedizione) sul pane e sul vino, affinché diventino, per la sua potenza, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo e perché coloro che partecipano all’Eucaristia siano un solo corpo e un solo spirito»4.

Così, liberi da ogni forma di egoismo, ci sarà possibile glorificare il Signore con la nostra vita portando a tutti la gioia del Signore risorto. E quando il nostro “io” tornerà ad insidiarci ripetiamo queste parole che don Andrea Santoro rivolse all’Altissimo nel 1985 vent’anni prima di essere ucciso in Turchia a causa della sua fede:

«Perdonami, Signore, per la mia mediocrità,
per essere così centrato su me stesso.
Ti chiedo te,
l’affermazione di te,
il venir meno di me.
Eccomi!
Fa’ di me quello che vuoi.
Vorrei amarti e farti amare.
Null’altro»5.


1 Vincenzo Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, nuova edizione ampiamente riveduta e aggiornata secondo l’editio typica tertia del Messale Romano, CLV-Edizioni liturgiche, Roma 2003, p. 299.

2 Mt 22,37-40.

3 Mt 6,7-15.

4 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1353.

5 Don Andrea Santoro, Padre Nostro, in Don Andrea Santoro “Un fiore dal deserto. Preghiere dal diario”, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015, pp. 58-59.

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Fr. Alessandro Amprino, secondo i documenti proviene da Torino, città dove è nato l’8 aprile 1991. Tuttavia, coloro che lo conoscono meglio sanno che preferisce definirsi originario di Cumiana, piccolo paese del Piemonte apprezzato nel corso dei secoli dai tanti forestieri che soggiornandovi vi hanno trovato “buon’aria, buon vino e gente umana”. Nell’ottobre 2012 inizia il suo cammino di formazione alla vita religiosa e sacerdotale sulle orme di san Domenico. Studente di teologia, si interessa in modo particolare di Liturgia. Il 1 giugno 2019 è stato ordinato Sacerdote. Consapevole che la Sapienza è un lauto banchetto imbandito da Dio per il suo popolo ha servito tra i banchi della scuola media Sant'Alberto Magno di Bologna come docente di Religione.