Condividi

“La Scienza del Riformatore”

Ci sono tre categorie di ‘vecchietti’: una è quella dell’anziano pescatore, esperto della vita o del mare, con un groviglio di rughe sulla faccia che non ti fanno ben distinguere se ti stia sorridendo o ti stia mandando dove… beh lo sappiamo. Poi vi sono dei vecchietti più languidi, abitudinari, con la giacca intonsa e gl’occhi lattiginosi che vagabondano per i parchi cittadini con una non-chalance borghese, un po’ sbiadita forse e un borbottato «oibò» sulle labbra. Infine vi è il genere antico-saggio… è una categoria tutta unica e particolare: sono uomini che potrebbero dirti: “Passami il sale” e tu rimarresti lì, come stregato da quell’occhiata sapida, a chiederti quale profetica metafora vi sia celata in un così solenne: “Passami il sale”.

Anziano pescatore mentre guida la processione di una confraternita
Vecchio pescatore negli abiti di capo di una confraternita

Vi assicuro che appartiene spontaneamente e senza sforzo a questa categoria l’ottocentesco Edward B. Tylor (1832 – 1917), padre dell’antropologia culturale inglese. Chi fonda una scienza deve essere così, come lui: severo, barba lunga, una sorta di gerontico profeta a cui tutti i suoi successori potranno ispirarsi, rimemorando come proverbi i suoi detti e le sue definizioni. Fra queste balugina come una perla quella di antropologia culturale: la scienza che studia l’uomo come soggetto culturale. È un atto chirurgico: si prende un gruppo di uomini (sull’individuo è difficile fare speculazioni universali) e se ne scrutano i costumi e le credenze, le si confronta con le proprie, si traggono conclusioni. Perché? Si vuole sondare quel misterioso suolo che definisce in buona parte le coordinate di tutto ciò che crediamo. In sintesi l’antropologia culturale vuole costruire un modello che descriva quel pensiero in cui noi pensiamo per lo più senza saperlo. Provate ad immaginare il potere che può dare ad una persona scoprire le fonti dell’opinare comune, darne un’interpretazione, criticarle o approvarle. E di qui la più arguta massima del vecchio pensatore inglese: l’antropologo culturale non è soltanto uno scienziato, ma un riformatore.

La ‘vera’ madre di Cristo: l’animismo secondo E. B. Tylor

Di fronte ad un così potente mezzo, come resistere dal prurito di usarlo sulla religione, che pare così appetitosamente ricca di ‘assiomi’? Ed è proprio qui che il patriarca dell’antropologia inglese si è applicato, cercando di ricostruire l’evoluzione della religione e il suo ipotetico tramonto a partire dall’animismo.

Ma vi sono alcuni presupposti da chiarire: (1) sembra esistere nella storia un progresso scientifico e tecnologico dell’uomo che cumulativamente (cioè per un accumulo lento e progressivo di conoscenze) conduce dallo stato selvaggio a quello di civiltà. (2) I vari popoli ancora oggi selvaggi sembrano considerabili come i rappresentanti di uno stadio precedente di civiltà rispetto al nostro e quindi «i loro costumi e le loro leggi spesso ci spiegano in un modo che altrimenti ci sarebbe difficile concepire, il senso e le cause profonde dei nostri»1. (3) Noi, s’intende, non siamo selvaggi. Abbiamo, infatti, la scienza.

In effetti, sono tre “non meno dogmi” di quelli religiosi, che però hanno il pregio di avere quella lucidità asettica che placca ogni affermazione superbamente ‘scientifica’ di quel tempo. Così inizia la speculazione del nostro professor Tylor in Cultura primitiva (1871), il quale definì il fenomeno dell’animismo, come il seme primordiale di ogni fede, di ogni mito e del mondo magico. Con animismo egli intendeva «la credenza delle anime e degl’esseri spirituali in genere»2.

Sir Edward Burnett Tylor

Egli sosteneva che l’uomo fosse giunto a credere nell’esistenza di un doppio nella realtà, quello spirituale, che rimaneva celato, come una filigrana, nella materia delle cose. L’origine di questa credenza l’attribuiva ad esperienze di sdoppiamento della personalità e apparizioni, che sovente sono contenute nei sogni. Il sogno non è forse il luogo dove tutte le cose si animano e quasi prendono vita? Di fronte a questa meravigliosa evidenza il selvaggio sarebbe stato indotto a credere che la realtà custodisse un livello segreto ed occulto che si rivelava nel vortice dell’onirico: vi è un’anima in tutte le cose, sia in quelle viventi che in quelle inerti. La verità scientifica, però, sarebbe che non vi è alcuna anima, ma soltanto le cose. Conciò, le convinzioni fondamentali del pensiero animistico si sono evolute: da un’anima occulta nelle cose, ad una trascendente al di là delle cose. Non sarà allora impossibile il salto dalla convinzione dell’esistenza di una realtà spirituale alla Fede in un Dio personale e creatore che si è incarnato. Si potrebbe, quindi, concludere che per Tylor il cristianesimo sia un raffinato caso di animismo: non è forse la dottrina sull’immortalità dell’anima il fil rouge che conduce «dalla filosofia del selvaggio alla filosofia del moderno professore di teologia»3?

Nativo americano mentre suona un tamburo rituale
Ritual, foto di Alex Polezhaev

Una nuova dottrina del “doppio”

Brillante davvero come teoria, soprattutto perché supportata dal duro lavoro di un grande pensatore. Ma nella sua pretesa onnicomprensività scivola su un assunto filosofico preso non meno dogmaticamente dei dogmi che desiderava abbattere: la realtà è davvero solo materia più o meno complessa? Questo è un problema che esula dall’antropologia culturale. Se l’arguto positivismo di Tylor accusa il cristianesimo di dualismo (il mondo si divide in materia e spirito) si potrebbe ribaltare la riflessione: e se fosse la materia a costituire il doppio della realtà? Facciamo un esempio: ciò che mi permette di distinguere il David del Michelangelo da una scultura moderna, non è di certo il marmo della scultura, ma la sua forma. Il David è David perché ha la figura dell’eroe biblico. Tuttavia il marmo della figura del David, ossia la materia di quella statua, può essere riscolpita con altre forme. Così il marmo, essendo sempre riplasmabile, sarebbe ciò per cui il David potrebbe diventare qualcos’altro. Vai per le bancarelle fiorentine e lo trovi in una miniatura di gesso, di ferro o di rame. Ecco il doppio.

Ora, applichiamo questo concetto agl’esseri viventi: la forma del David sta al marmo come l’anima sta al corpo. La carne umana può diventare o cadavere o il sugoso bollito di qualche cannibale oppure la leccornia di un verme. A me pare di riscontrare una certa differenza fra un uomo e il suo cadavere, quantomeno di dignità o, se non si vuole tirare in ballo il valore dell’uomo, l’istinto di sopravvivenza che i defunti non hanno più di certo. E, siccome prima e dopo il decesso l’anatomia non subisce alcuna differenza notevole, mi sembra che la vera discriminante sia l’anima, ossia la vitalità dell’uomo.

Busto di Aristotele
Busto di Aristotele, Roma, Museo Nazionale

Facciamo un ragionamento. Il cadavere non è un corpo vivente, ma ha la forma di corpo. Supponiamo, ora, che malauguratamente, io sia morto. Mentre lei, mio caro lettore, versa una lacrima al mio capezzale, vede avvicinarsi uno, sciolto, un po’ ardito. Questo, rivolto alla mia salma, la invita ad una gradevole conversazione di fronte ad una buona tazza di tè. Credo che converrà con me col dire che sia un po’ folle. Sì, lo è, scambiare uno, vivente nel suo corpo, col suo cadavere: noi lo diremmo folle. Perché fra Pietro non è un corpo disanimato. Così il cadavere di fra Pietro non è il corpo di fra Pietro, perché il cadavere è morto, mentre il suo corpo, in senso proprio, è vivo. Per questo abbiamo la distinzione dei termini corpo e cadavere, perché in questo caso sono in realtà distinti. Il cadavere non è, quindi, analogo a un doppio del corpo, proprio perché privo di anima? Aristotele diceva che una mano tagliata non è molto diversa da una mano dipinta: nessuna delle due afferra alcunché. Ma se la mano mozzata è come una mano dipinta e la mano dipinta non è che una rappresentazione di una mano vera, un doppio di quella reale, perché non potremmo concludere che la mano tagliata è come un doppio di quella ancora vivente? E se vale per la mano, perché non dovrebbe valere per il corpo intero?

Risulta quindi che il doppio consista nella materia e non nella forma: nella statua ciò che duplica sono i diversi materiali, mentre la figura è un calco della stessa. Così per il corpo e l’anima, laddove è per la nostra anima che, al contrario, siamo un unico non duplicabile. Con questo non si vuole dire che l’uomo sia solo anima: il cristianesimo è intelligente e cerca d’includere semplificando, invece di escludere riducendo. L’uomo è anima e corpo. Ma in questo anche i positivisti convengono, perché sanno distinguere fra un corpo vivente e un corpo morto. Ciò che non accettano è che l’anima sia spirituale, quindi immortale. Supponiamo che sia così. Non desidero prolungare lunghe dissertazioni filosofiche in merito: credo, invece, che in questo sia proverbiale il più profondo insegnamento di ogni fiaba che ci viene raccontata da bambini. Il segreto del lieto fine. Se è vero che è bene tutto quel che finisce bene, allora è orrendamente vero che sia nulla tutto quel che finisce nel nulla! Che cosa distinguerebbe alla fine dei conti un cane da un uomo? Nulla. Allora, mio caro lettore, mi permetto di serbare qualche riserva verso chi mi vuol far nascere scimmia e morir cane.


1 E. B. Tylor in Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Ozzano Emilia 2014, p. 15.

2 Ibidem.

3 Ivi, p.16.


Riconoscimenti per le immagini: per la copertina, dettaglio della foto di Thomas (@ARRGch), Bruxelles – Masks. Per la foto dello sciamano: Alex Polezhaev, Ritual.

Non perderti nessun articolo!

Per restare sempre aggiornato sui nostri articoli, iscriviti alla nostra newsletter (la cadenza è bisettimanale).

Chi sono? In verità non ne so molto più di voi. Del resto, vivo anche per scoprirlo. Ma giustamente chi legge questo genere di presentazioni, si attende una sfagiolata di dati anagrafici. Essia! Sono nato all’Ospedale Maggiore di Bologna quel glorioso 9 settembre del 1994 (glorioso per ovvie ragioni). Chi non mi ha mai veduto senza barba, ipotizza che mi trassero dal ventre di mia madre proprio tirandomi dalla barba… inquietante, ma non smentirò questa leggenda. Frattanto in questi 25 anni di vita ho frequentato il liceo scientifico Malpighi, mi sono appassionato a Tolkien, alla Filosofia, alla Poesia medioevale e novecentesca, infine alla cinematografia, su cui amo diffondermi in raccolte meditazioni crepuscolari. Cosa ho compreso saldamente? Ad una sola vita, un solo modo per viverla. Per questo appena conseguita la maggiore età, ho fatto domanda di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Attualmente mi nutro di studi di San Tommaso, di spiritualità e di metafisica (sto affrontando un densissimo filosofo Polacco, Przywara … la pronunciabilità del nome è direttamente proporzionale alla sua chiarezza). Per contattare l'autore: fr.pietro@osservatoredomenicano.it