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Oggi vi è una generale e ideologizzata visione sull’amore, che va ad inserirsi nel già intricato ammasso di ideologico oblio che brulica di luoghi comuni totalizzanti e che la cultura dei “social” quotidianamente ci propina.

Già, l’amore, cos’è? E perché un frate, che a rigor di logica è legato dai voti, scrive su questo? Perché tutto, assolutamente tutto si inserisce nell’immensa galassia dell’amore, che si manifesta in maniera varia e sfaccettata nella vita di ciascuno. Sin dall’antichità i Greci, e di riflesso i Romani, avevano una parola differente per ogni esperienza che facevano dell’amore. Così ogni specie di amore designava un altrettanto specifico tipo di relazione. Sì, dire Amore è già dire relazione.

Questo nelle lingue moderne si è perso, facendo rientrare tutto ciò che riguarda l’amore nella parola stessa “amore”, che assume un significato diverso a seconda di come logicamente viene contestualizzata in una frase. Ora, esiste l’amore possessivo, conosciuto dagli antichi come “eros”, che è quello a cui tendenzialmente si pensa nel pronunciare la parola “amore”; ma esiste anche un amore oblativo, quale dovrebbe essere quello di un genitore per un figlio, quello nuziale e infine anche quello che si manifesta nella vita di un consacrato nell’atto di entrare nello stato religioso o presbiterale.

Per poter rispondere alla domanda “cos’è l’amore?” che tanto riecheggia nel dialogo platonico del “Simposio” dobbiamo andare alle origini: per l’uomo, cos’era l’amore? Cosa è sempre stato? Ossia: qual è la radice di questa parola? Facendo uno “spoiler”, possiamo citare l’apostolo Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”. (1Gv 4,7-9).

Ma anzitutto è doveroso osservare come prima di Cristo l’uomo ha visto e vissuto l’amore. Nel corso della storia umana questo concetto ha viaggiato nel pensiero dei filosofi, nelle culture e nelle usanze dei popoli (e con addosso anche un certo bagaglio!), evolvendosi e trasformandosi, trovando, a mio avviso, la sua più alta e nobile definizione e il suo culmine nella soprascritta citazione giovannea.

L’uomo antico è riuscito a vedere nell’amore una forza fisiologica originaria che teneva unito l’universo e i suoi “elementi”. Secondo la visione di uno dei primi filosofi, Empedocle, esso unificava l’universo intero: “E non finiscono mai, queste cose che perpetuamente trasmutano / ora di riunirsi tutte in uno per azione di Amore[1]. Già qui esso costituisce, in un qual modo, l’inizio e la fine: dall’unità alla disgregazione massima, dalla disgregazione massima all’unità. Certo, in un qual modo, perché la figura che Empedocle disegnava idealmente era quella di un cerchio, e, nei cerchi, qualsiasi punto preso, può essere inizio e fine del cerchio stesso. Ma non credo che Empedocle fosse un nichilista; se lo era, di certo non aveva letto Nietzsche.

Questo primato dell’amore in un certo qual modo fu riconosciuto dalla storia del pensiero filosofico, e al di là delle intuizioni stesse degli antichi naturalisti. Infatti, continuando nel cammino della storia, il pensiero greco mantenne la sua visione dell’amore come unità: basti pensare a quel mito, contenuto nel “Simposio”, dove Aristofane racconta di un uomo originario, l’androgino, dalla cui divisione si formarono i due generi, maschile e femminile, che ancora oggi vediamo cercare disperatamente di ricucire l’unità. E questo non lo dicono solo i filosofi, ma anche i liceali, che, filosofi a modo loro, sono ben consapevoli di quanta sia la fatica che si fa per imbrogliare il padre della propria ragazza quando la si invita a vedere una fantomatica e scrupolosa ‘collezione di farfalle’.

Ma è bene che ci eleviamo un poco, e ci domandiamo: come pensare all’amore su un piano divino? Aristotele, nel libro XII della sua Metafisica, quando spiega la grande intuizione teologica del Motore Immobile, causa delle cause (che, attenzione, è ancora molto lontano dall’essere assimilato al Dio della Rivelazione), timidamente parla di due amori: uno che attrae verso l’Atto Puro l’universo, mendico e bisognoso; l’altro è l’amore “egoista” del Motore Immobile, che, invece, pensa solo a sé. Lasciamo la parola ad Aristotele stesso: egli scrive: “Il primo motore muove come ciò che è amato mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse[2]. Il primo di questi amori, appetizione che il Motore Immobile induce nel cosmo, dà origine a tutti i movimenti dei cieli e della natura. Questa concezione si è così ben fissata nella cultura occidentale da lasciarcene traccia nel celebre passo dantesco: “L’amor che move il sole e l’altre stelle” [Paradiso, c. XXXIII, v. 145].

Ma siamo ancora lontani dal ‘Dio è amore’ di Giovanni: è ben chiaro che l’amore di Aristotele è la ragione del movimento, sia esso metafisico, psicologico o etico. Il lettore mi dirà che per parlare dell’amore dobbiamo parlare concretamente della vita umana e della sua dimensione più intima. Ebbene, facendo sempre ricorso al buon vecchio Aristotele, lo faremo: attingeremo a quella meravigliosa opera che è l’Etica Nicomachea, una delle opere più antiche ed influenti della filosofia morale.

Per lo Stagirita la forma ideale dell’amore era l’amicizia, che si sviluppava per gradi in base alle ragioni per cui nasceva: il grado più basso era sicuramente quello dell’utile, il secondo era il piacere e il più alto e nobile era quello del bene stesso. È vera quell’amicizia che anzitutto è gratuita, per cui si vuole il bene dell’amico, si desidera partecipare con lui alle sue gioie e ai suoi dolori, come se fossero i propri: “Amando l’amico, amano ciò che è bene per loro stessi, giacché l’uomo buono, divenuto amico, diventa un bene per colui che è diventato amico[3]. Questo grado di amicizia (quindi di amore) è superiore, duraturo e raro.

È un amore che tende ad avere come unica condizione di essere incondizionato. Del resto, come dice lo stesso Aristotele, un amore che sia fondato solo sull’utile… è un amore da mercante. Secoli dopo, San Paolo inneggerà a questo stesso amore, ma esso non sarà più un’amicizia meramente umana, ma l’Amicizia che Dio offre all’uomo. Amicizia di cui gli amori che legavano gli uomini prima di Cristo non erano che sbiadita allusione.

Sì, è proprio lei, la Carità. Paolo nella sua prima lettera alla comunità dell’opulenta Corinto, città già sacra ad Afrodite, richiama i “santi”, cioè i cristiani, a vivere una nuova dimensione dell’amore. Perché questo avvenisse, era necessario emanciparsi da una non proprio corretta concezione di “philia” che la cultura ellenistica proponeva, e che divideva la comunità corinzia, ancora legata ad uno stile di vita ibridamente pagano, segnato dall’eccesso della concupiscenza. Insomma, per intenderci, ai liceali di cui sopra San Paolo bandiva qualsiasi collezione di farfalle.

Molti bachi da seta più tardi, nel Medioevo, la storia tesseva uno strabiliante capitolo sull’amore negli scritti di San Tommaso d’Aquino. Sempre sulla scia di Aristotele, il Doctor Angelicus scriverà: “[…] La causa dell’amore è l’oggetto dell’amore. Ma l’oggetto proprio dell’amore è il bene: poiché l’amore comporta una connaturalità o compiacenza dell’amante rispetto all’amato, e per ciascun essere è bene quanto è ad esso connaturale e proporzionato[4].

San Tommaso gradua l’amore in base a quello che è il soggetto amato. Tutto comincia dall’amore di Dio, il quale non ama Se Stesso in modo esclusivo, come in Aristotele, ma ama positivamente il mondo creato. Questo Amore si dona, e può nobilitare anche l’amore umano, se esso si lascia illuminare dalla nobiltà dall’amore di Dio, cioè dalla Carità. Questo per dire che a tutti i livelli l’amore diventa nobile, se partecipa dell’Amore del bene supremo che è Dio.

Deus Caritas est… Ed infine, sgusciati dalle crisalidi anche gli ultimi bachi da seta, siamo tornati dove eravamo partiti. Siamo tornati a un inizio che, però, cambia tutto. L’apostolo Giovanni ci apre a vivere l’amore in una ricchezza inedita, e a tutti i livelli. Perché quell’Amore, che è Dio, disceso dal cielo, si fece uomo, affinché l’uomo potesse amare come Dio.

Di fronte a questo spettacolo, anche le farfalle sbigottiscono, appese ai loro chiodini…

[1] Empedocle, Sulla Natura, Frammento 17, vv. 6-7 in Diels-Kranz, I Presocratici, cur. Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2017, p. 659 [d’ora in poi DK]
[2] Aristotele, Metafisica, Libro XII,7
[3] Aristotele, Etica Nicomachea, libro VIII
[4]  San Tommaso d’Aquino op, Summa Theologiae, q. 27, art. 1, resp., trad. it. di p. Giuseppe Barzaghi op, esd, Bologna 2014, p. 278

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Forgiato dalla salsedine del Mar jonio e dal crepitio dei gusci delle cozze e non ultimo da un pizzico di polvere d'acciaio della nativa Taranto, viene Chiamato dal Maestro anche lui in riva al mare come un suo famoso santo omonimo. Sceglie di mettersi al servizio di Cristo nell'ordine Domenicano testa e soprattutto spalle (che quelle sin buone sicure!).