La filosofia del riso
Non ci si può sottrarre, no, è praticamente impossibile rimanere impassibili di fronte ad un’argentina risata, anche perché ridere è una di quelle poche azioni per cui l’impassibilità è tutt’altro che imparziale: se noi ridessimo e gl’altri si astenessero compostamente dal ricambiare il gesto, l’allegrezza ne sarebbe immediatamente tramortita. In questo il riso non ammette neutralità: è decisamente verace, di fronte ad esso bisogna schierarsi… Anche la verità è piuttosto schizzinosa nei confronti degli indifferenti. Da quando ha asserito: “Chi non è con me, è contro di me” (Mt 12, 30) è difficile ciarlare tanto di compromessi. Ma come la verità, ridere non è cosa che ami troppo la divisione, è piuttosto vero il contrario: cerca ardentemente delle affinità, crea simpatia fra gli uomini tanto che alcuni saggi ebbero a dire: “Ridere è contagioso”… Guarda un po’, anche il bene lo è. Un vecchio adagio tomista diceva: “Bonum diffusivum sui” [San Tommaso d’Aquino, De potentia, q. 7, a. 5, ad 7], il bene è per sé diffusivo.
Il riso si comporta in modo simile a quelle due realtà che l’uomo d’ogni epoca ha sempre desiderato: sapere il vero, avere il bene. Ma cosa qualifica un tale somiglianza? Ridere è una reazione naturale ad entrambi o è il loro snaturamento, forse una sorta scimmiottamento dell’autentica gioia? In effetti la rilevanza di una simile domanda non poté passare inosservata nella storia e visse di pingui dibattiti, tuttavia qualsiasi visione metafisica o etica sul significato del ridere si è legata sempre a due ultimi schieramenti. Il primo è proprio di uomini dai volti tipicamente severi e arzigogolati da plurime rughe, i quali roteano gl’indici nodosi, asserendo: “Ridere è roba da bontemponi”. 2. Gl’altri ribattono: “Ah sì?! Beh, bontemponi è bello!”
La dottrina dei bontemponi
In effetti i secondi, benché talvolta geniali, non hanno sempre dato una bella mostra di sé, tanto che la Rivelazione li caricatura implacabilmente nel Libro della Sapienza come dei dissoluti [Cfr. Sap 2, 4-9] che sanno un po’ del “chi vuole esser lieto sia / del doman non c’è certezza” di medicea memoria. Di qui il comandamento rigoroso della fazione avversa che ribadisce disciplina e contegno. Il ragionamento è, tutto sommato, stringente: tutti i dissoluti ridono, esser dissoluti è mediocre, se non vuoi esser mediocre, non ridere.
Par vero, anche se il termine tecnico non è dissoluto, ma stolto e sull’attività distintiva degli stolti la sapienza d’Israele sciabola alcuni versi affilatissimi: “Dicono fra loro, sragionando” (Sap 2,1). Combutta e brevità mentale, ecco il succo della stoltezza. La prima è tutta in quel fra loro, la cui brevità potrebbe indurre a crederne l’irrilevanza, al contrario la Sapienza Divina, sin da Maria, ama iscrivere nel poco il meglio del più: nella più piccola vergine del più piccolo popolo ha ritratto l’Immenso e in carne ed ossa, oserei dire. Anche qui la Raffinata Mente Divina, più esperta dell’umano di quanto ne capiscano gli uomini, rivela che se matti si può esserlo da soli, stupidi bisogna esserlo almeno in due. Il che lascia presagire a quelli un po’ più scaltri quale sia l’Opinione Divina sulle eresie…
Segue, quindi, quel sragionando… Tendenzialmente i Dizionari (o quei vetusti gnomini che ne curano l’antica saggezza) definiscono lo sragionare come la fabbricazione di argomenti senza nesso, in un certo senso immotivati. Ora, gli stolti dicono: “La nostra vita passerà / come traccia di nuvola, / si dissolverà come nebbia / messa in fuga dai raggi del sole / e abbattuta dal suo calore […]. Venite dunque e godiamo dei beni presenti, / gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza!” [Sap 2, 4c-f.6]. Sì, evviva, insomma, tanto moriremo tutti e poi più nulla, come se non fossimo mai stati … ah ah ah… non è che poi muoia proprio dal ridere…
E, in effetti, i bontemponi sono esattamente ciò con cui rimano, perché il contenuto estremo della loro dottrina è: “Ridi perché non c’è niente da ridere”. Ma se non c’è niente da ridere, non ridere no? E ridi lo stesso? Allora sei proprio un… Cogliamone l’insegnamento: ecco come nasce uno stolto, è nell’assurdità, quindi, e non nell’atto in sé che si cela il bacillo infettivo della stupidità. Non è che poi siano proprio meglio i severi detrattori del ridere, perché, come i primi, non sono davvero credibili. Insomma, ti trovi questi impettiti moralisti del seicento che, cinti da inamidate gorgiere, t’imperano baroccamente: “Cessi il riso!” Al che viene spontaneo suggerir loro: “E lei si tolga la gorgiera!”
Non mi si citi, poi, il caso di Qoeleth, il quale scrive: “È preferibile la mestizia / al riso, / perché con un volto triste il cuore diventa migliore” [Qo 7, 3], poiché è il libro in cui il Verbo ricorda ai cinici che è più bravo di loro ad esser cinico e lo fa usando anche una mirabile ed ispirata auto-ironia. Egli, infatti, sa benissimo del Mistero della Sua Risurrezione, tuttavia scrive: “Chi sa se il soffio vitale dell’uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra? […] e chi potrà condurlo a vedere ciò che accadrà dopo di lui?” [Qo 3, 21], quasi a dire ai fatalisti che non ne facciano poi una gran tragedia del male nel mondo (tanto che dicono: Dio non esiste), perché Chi scrive lo conosce bene e meglio del mondo sa come andrà a finire. Inoltre, da ciò che si legge, è evidente che l’autore sacro doveva essere un tipo ironico-ombroso, uno di quelli che non ride alle sue battute.
Il Mistero di una ricca risata
Ma la verità è che da entrambe le fazioni nessuno è mai riuscito a privare l’uomo di una buona ragione per ridere, la quale perdura nei secoli sotto i più svariati mantelli, fra le più tarlate osterie, davanti alle birre più schiumose e, Dio lo voglia sempre, nel segreto delle culle dei bambini. Curioso, perché le costanti nella storia dell’uomo hanno a che fare con due cose soltanto: o il peccato originale o la Smania Divina di salvarci da esso. E siccome nel primo ci trovo ben poco da ridere, mi sa che la seconda sia più azzeccata.