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Nel mese di agosto – il quattro nella diocesi di Bologna, l’otto negli altri luoghi – la Chiesa celebra la memoria di san Domenico di Caleruega, fondatore del nostro Ordine religioso. Rimandando le riflessioni sul Santo agli articoli di alcuni miei confratelli (La via del Patriarca e Il silenzio di Domenico), vorrei soffermarmi su alcuni aspetti di quella famiglia nella quale san Domenico ci ha chiamati.

In apparenza, non c’è nulla che distingua i frati predicatori dagli altri religiosi e dai laici, fatta eccezione per l’abito: la predicazione del vangelo, al fine di cooperare alla salvezza delle anime, è un compito che tocca ad ogni cristiano. La nostra predicazione, si dice, deriva dalla contemplazione, ma le opere di ogni religioso devono trovare nella contemplazione la loro origine.

Si potrebbe dire che il compito dei domenicani sia stato quello di riportare al centro dell’attenzione il ministero della parola, unito alla vita di preghiera; in tal caso, dopo ottocento anni, sarebbe ora di dissolverci nel mondo, dal momento che da più parti si avverte l’esigenza di annunciare il vangelo, soprattutto nei Paesi che stanno perdendo la fede. Invece, nonostante tutto, ci ostiniamo ad esistere, a ritenerci chiamati da Dio a questo tipo di vita e a considerarla bella ed utile per la Chiesa.

Dunque, per capire che genere di vita sia la nostra e per dire qualcosa sul carisma domenicano, conviene partire da quell’elemento che, a colpo d’occhio, ci distingue dagli altri religiosi, ossia l’abito. In particolare, il colore bianco può aiutarci a comprendere la natura del nostro Ordine e, di conseguenza, il nostro fine specifico.

È noto che un corpo si presenta bianco quando riflette tutta la luce che lo colpisce: un corpo risplende quando dona tutta la luce ricevuta; solo così si può illuminare chi si ha intorno. Inoltre, solo i corpi luminosi possono essere ammirati: la luce permette di vedere ed ammirare ciò che illumina, mostrando le caratteristiche proprie di ogni corpo. Al contrario, quanto un corpo più trattiene ciò che ha ricevuto, tanto più è oscuro: le tenebre assorbono ciò che ricevono senza dare frutto, né per sé, né per altri; diffondendosi, annullano le differenze, cancellando la bellezza propria di ogni corpo.

Nella vita spirituale avviene un fatto analogo: l’offerta di ciò che abbiamo (il tempo, le nostre capacità, ecc.) non ci impoverisce, ma consente alle grazie che abbiamo ricevuto di diffondersi. Ne è un esempio san Domenico: egli, che aveva compreso questa dinamica, scomparve per lasciar trasparire la Parola che annunciava; divenne padre e guida dei predicatori, pur non avendoci lasciato alcuna predica scritta. Ugualmente, il domenicano riflette ciò che ha ricevuto nella contemplazione del Verbo incarnato. Nella predicazione, il religioso dona tutto ciò che ha ricevuto nella vita comune, nella preghiera e nello studio. Così, per tornare al simbolismo dell’abito domenicano, il colore bianco del nostro abito indica l’oblazione totale di sé che il frate compie. Il colore nero della cappa, invece, ricorda le parole dell’Apostolo: «Portando nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,10). La cappa nera avvolge totalmente il frate, perché egli si ricordi che appartiene a Dio.

Proprio per quest’appartenenza a Dio, i frati sono chiamati a contemplare Cristo e a mettere lo studio e la ragione al servizio della predicazione della Verità. Il nostro studio, infatti, riguarda le verità rivelate e la pienezza della Rivelazione è Gesù Cristo. Perciò, non è assurdo che il predicatore sia un contemplativo, poiché deve predicare Cristo e di conseguenza deve conoscerlo, ma conoscerlo vuol dire che Dio dimora in lui e che si osservano i suoi comandamenti (cfr. 1Gv 2,3), che si riconducono all’amore di Dio e del prossimo. Perciò, tutti gli aspetti della vita del domenicano sono orientati alla contemplazione, dalla quale sgorga la predicazione, come l’acqua sgorga dalla roccia e come il frutto nasce dal fiore.

Ciò che predichiamo si alimenta anche grazie allo studio della filosofia e della teologia, ma la preparazione dottrinale non si oppone alle devozioni popolari, com’è testimoniato dalla corona del rosario, che portiamo appesa alla cintura. La preghiera del rosario, infatti, è rivolta alla Madonna, tra i cui titoli spicca quello di sede della Sapienza ed è incentrata sull’Incarnazione, contro la quale si scontrano tutte le eresie.

La predicazione, dunque, è il fine proprio dell’Ordine domenicano. Ora, stando a quel che dice san Tommaso (S. th., II-II, 177, 1 e 178, 1), il carisma della parola è dato affinché la conoscenza ricevuta da Dio si volga al bene degli altri: in altre parole, lo Spirito Santo fa sì che i membri della Chiesa parlino con efficacia. Questa grazia speciale non è data ad una persona, ma ad un ordine religioso. Così, l’Ordine domenicano rende visibile il carisma della profezia; per questo santa Caterina disse che, nel suo insieme, non si sarebbe allontanato dalla verità. Allontanarsene significherebbe perdere la carità, cioè perdere il senso di tutta la vita cristiana, secondo le parole di san Giovanni: «Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui» (1Gv 4,9).

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Fra Paolo Peruzzi, nato a Verona nel 1990, diplomatosi al liceo classico, nel settembre 2016 ha emesso la professione semplice nell'Ordine dei frati predicatori. Attualmente studia Teologia, dopo aver ottenuto il baccellierato in Filosofia presso lo Studio filosofico domenicano di Bologna. Per contattare l'autore: fr.paolo@osservatoredomenicano.it