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Dopo una breve pausa mi sembra il momento di riprendere il nostro percorso di conversione meditando i misteri della gioia. La suddivisione che avete esperito si è resa necessaria per motivi editoriali: il percorso che vi propongo è unitario e v’invito quindi a recuperare la prima parte dell’articolo (I misteri della conversione: Annuncio, Visitazione) onde fruire al meglio la presente.

Vedo il mondo in superbe sfumature

Infine, vi è la nascita del Signore, il Natale in se stesso. Dal racconto evangelico si evince che da un lato il momento ebbe un’intima grandiosità per nulla sminuita dal contesto umile, dall’altro che giunse in modo diverso da come lo si sarebbe programmato. Il parto, infatti, in una situazione normale, si sarebbe organizzato in modo più preciso, più intimo oltre che più sicuro, ma ciò non fu possibile. L’incarnazione di quel “sì” dato tempo prima giunse in un momento ed in un modo inattesi, lontano da ciò che normalmente associamo alla gioia. Quale madre infatti immaginerebbe il parto di suo figlio in una stalla, in mezzo al letame, lontana dai genitori e da ogni conforto? Il povero san Giuseppe, inoltre, avrà fornito tutta l’assistenza che un falegname di professione poteva dare. Ciò che voglio dire è che quando per la prima volta esperiamo la felicità che ci siamo concessi di sperare con la conversione, essa spesso giunge in modo diverso da come ce la saremmo aspettata. Il Signore infatti agisce attraverso vie a Lui solo note ed è capace di sorprenderci sempre. Ciò, a mio parere, è un bene perché se fosse altrimenti saremmo tentati di pensare che quella gioia potevamo raggiungerla anche con le nostre forze. Quando scoppiamo di felicità in situazioni e dopo avvenimenti che, razionalmente, dovrebbero abbatterci, allora percepiamo la mano potente di Colui che ci confonde, traendo il massimo dal minimo. Questa esperienza è spesso molto intima: la gioia che Dio ci dona è qualcosa di cui gli altri percepiscono gli effetti ma a cui partecipano con difficoltà.

La natura di questo momento, questa nascita di Cristo in noi, corrisponde all’attimo in cui ci rendiamo conto che la nostra prospettiva delle cose non è più la stessa; può o meno coincidere con un preciso avvenimento ma è sempre una sensazione potente, poiché ci accorgiamo che quelle stesse cose che abbiamo sempre visto hanno per noi un aspetto differente, migliore in definitiva.  Quell’incarnazione del Signore nella nostra esistenza che prima cercavamo di costruire con alcuni gesti ora è propriamente in atto e ci cambia non tanto nelle azioni ma soprattutto nelle scelte. Ora infatti, con Dio al fianco, desideriamo attivamente quel bene di cui comprendiamo appieno il valore.

Non di sole avventure

Il quarto mistero, ossia la presentazione di Gesù al Tempio, sembra un passo indietro rispetto alla grandiosità della nascita a Betlemme. Questo è un momento di “donazione”, rituale e simbolica, del primogenito maschio a Dio secondo una consuetudine ebraica del tutto comune ed ordinaria e stona, secondo me, con la straordinarietà del mistero precedente. Noi ci aspetteremmo che l’eccezionalità sia sempre in ascesa o che, perlomeno, si mantenga a buon livello. Maria c’insegna invece che non è così che opera il Signore: ella, con l’ordinarietà del suo gesto, da un lato ci ricorda che Cristo non ci dà una vita straordinaria ma rende straordinaria la nostra vita; dall’altro ci rammenta che i frutti eccezionali del nostro “sì” non sono nostri propriamente, ma di Dio.

Uno dei pericoli che seguono una vera conversione è di pensare che quell’ardore iniziale che sentiamo, quel fuoco spirituale che ci arde nel cuore, sia costante e, in fondo, merito nostro. Ciò che voglio dire è che i frutti della nascita di Cristo in noi non sono passeggeri ma neppure portatori di una costante eccezionalità. Il matrimonio ne è un perfetto parallelo: la gioia prorompente che si prova nei primi mesi si stempera col tempo in una serenità costante che, se scambiata per affievolimento, può generare delle crisi. Nella vita di fede vi sono dei momenti, come la prima azione di Dio in noi, nei quali si tocca quasi il Cielo con un dito, ma la maggior parte del tempo si esperisce una pace piena di tepore che riscalda una vita in sé normale. Coloro che scadono nella ricerca costante dell’eccezionale finiscono per considerare, anche solo implicitamente, l’esperienza di fede come qualcosa che dipende dalle loro forze e che ha in Dio solo un fine e non un attore. Nell’offrire Gesù al Tempio Maria, attraverso un gesto ordinario, ci raccomanda un atteggiamento umile, capace anche nell’euforia della gioia di ammettere che il nostro unico merito è di esserci aperti all’azione di Colui che legge nei cuori.

La pregnanza dell’eco

Eccoci, infine, al quinto mistero della gioia: il ritrovamento di Gesù al Tempio fra i dottori. La vicenda è nota: secondo il racconto di san Luca la Sacra Famiglia, come ogni anno, aveva fatto il pellegrinaggio rituale a Gerusalemme per la Pasqua e, al ritorno, non si accorse di aver lasciato Gesù nel Tempio. Tornati a prenderlo, Maria e san Giuseppe gli chiesero spiegazioni e Lui si limitò a rammentare loro che la sua missione era ben più ampia di quanto potessero vedere.

Si possono fare molte letture di questo episodio, ma quella che vorrei proporvi vede nel viaggio con Gesù una figura dell’evangelizzazione. Portare il Vangelo ad altri significa infatti presentare, attraverso la nostra testimonianza, una persona, ossia Gesù stesso, che, come ha agito in noi, così agirà nell’altro. Ciò implica esercitare una forma di controllo sull’esperienza potenziale di fede del prossimo, poiché il suo “annuncio” tenderà ad essere ad immagine del nostro. Questa è una grande responsabilità della quale il cristiano, a qualunque livello, deve essere conscio affinché, nel dare testimonianza, trovi il giusto equilibrio fra un inevitabile personalismo ed una necessaria obiettività. L’episodio, sotto questa luce, ci si presenta come un avvertimento: mai pretendere di avere il pieno controllo sul Vangelo. La grande gioia che il credente prova nell’esistere con e per il suo Signore genera in lui la necessità di comunicare questa felicità; tuttavia deve sempre tenere presente la sua natura di messo, di servitore, che se da un lato lo chiama ad un servizio, dall’altro non riduce l’azione del Padrone a quel servizio. Non bisogna cioè pensare che Cristo sia comunicato all’altro solo attraverso ciò che noi progettiamo di dire o di fare, poiché così facendo ci si dimenticherebbe che il Vangelo è Parola Viva di Dio e per questo opera ben al di là del nostro controllo. Possedere questa consapevolezza non è necessario solo per un discorso di umiltà, ma anche per accogliere con gioia tutti quei frutti che giungono al di fuori della nostra opera. Essi, come l’azione di Gesù ragazzo nel Tempio, non solo saranno motivo di Salvezza per altri, ma occasione di meditazione per noi.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it