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Ci chiediamo di chi o di che cosa parlasse Zaccaria quando diceva: «In quel giorno non vi sarà né alba né gelo né freddo. Sarà un unico giorno. Il Signore lo conosce. Non vi sarà né mattina né sera, e verso sera splenderà la luce» (Zc 14,6-7).

Certamente ci viene alla mente quella “notte luminosa più del sole, notte più fulgente della luce”, la notte della risurrezione di Cristo. Lì non c’è né giorno né notte, perché la notte è più luminosa del giorno. Ma come possiamo noi affacciarci su questo giorno? Infatti solo quella notte, come dice il preconio pasquale della notte santa, ha meritato di essere testimone della risurrezione di Cristo. Come possiamo noi avere accesso ad essa?

Certamente possiamo solo attraverso la comunione con Cristo. Come dice sant’Ambrogio: «Se oggi Cristo è tuo, egli risorge per te ogni giorno». È dunque l’oggi della comunione ad aprirci la finestra, lo sguardo su questo giorno eterno di luce.

Ma come è possibile questa comunione? Attraverso la Liturgia della Chiesa, attraverso la Chiesa che è fondamentalmente liturgia, e liturgia cosmica. Infatti nella liturgia si realizza ciò che è il vertice dell’identità della Chiesa: offrire l’universo a Dio e offrire all’uomo la comunione con Dio. Solo la Chiesa è prolungamento della luminosa notte pasquale; solo la Chiesa è giorno che non ha fine, ma sfocia nell’eternità.

Ora, però, nell’Akathistos, la grande preghiera mariana dell’Oriente cristiano, Maria è indicata con il curioso titolo di “Trapeza bastazusa euthenian hilasmon” (Tavola che reggi abbondanza di propiziazioni). Dunque Maria viene presentata come altare cosmico sul quale ci viene imbandito il banchetto della comunione con Cristo.

E questo a ragion veduta, perché tra Maria e la Chiesa vi è una specie di identità. Infatti, nel collo di bottiglia del Venerdì e del Sabato Santo, Maria coincide con la Chiesa, perché è l’unica a conservare pura e indefettibile la fede, accompagnando Gesù nel turbine del dolore. Per questo quando Gesù, nell’ultima cena, parla agli apostoli, sembra, come dice il proverbio, “parlare a nuora perché suocera intenda”. Le parole che egli dice, infatti, sono rivolte agli apostoli, quindi alla Chiesa, sua sposa, ma si possono applicare perfettamente soltanto a Maria: «In verità, in verità vi dico: voi sarete nella tristezza e nel gemito, e il mondo si rallegrerà. La donna quando partorisce è nel dolore, ma quando ha dato alla luce il figlio, non ricorda più il dolore, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi: la vostra tristezza si cambierà in gioia. E io vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,20-22).

Sì, questa gioia è la gioia di Maria, la gioia di colei che può dire con le parole del Cantico dei cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16). Per sempre. In Maria anche l’ombra della tristezza è trasformata nella luce del giorno eterno in cui Cristo sempre risorge.

Per questo non è poesia, ma teologia, chiamare Maria con il titolo di «Donna vestita di sole» (Ap 12,1).

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Lombardo, nato e cresciuto fra i rami del lago di Como, ha frequentato il liceo classico A. Volta di quella città, percorso comunicazione, dove ha imparato ad amare il greco – è un appassionato lettore dei vangeli nella loro forma originale – e le lingue in genere, non ultimo il proprio dialetto brianzolo. Ha poi recitato, all’età di 19 anni, il suo primo “Addio ai monti” per trasferirsi presso il Seminario ambrosiano di Seveso, ex convento domenicano e luogo in cui Carino da Balsamo col suo falcastro dava la morte a S. Pietro primo martire domenicano. Discernendo poi una chiamata più speciale, è entrato nell’Ordine dei predicatori. Ha emesso la sua prima professione religiosa il 3 settembre 2016. Baccelliere in filosofia, prosegue il suo studio della teologia. Per contattare l'autore: fr.stefano@osservatoredomenicano.it