Gli abissi del carnefice
Uno dei cliché narrativi più celebri ed abusati vuole che lo sguardo supplice della vittima sia, perlomeno saltuariamente, in grado di muovere il cuore del carnefice. Solitamente, per rendere la compassione più empaticamente comprensibile allo spettatore, gli occhi in questione appartengono ad un bambino, o comunque ad un qualche individuo di chiara fragilità ed innocenza. Ora, anche se è indiscutibile che un confronto diretto e personale con la vittima renda più difficile disumanizzarla, e quindi ucciderla a sangue freddo, i fatti ci mostrano quanto purtroppo sia rara una simile eventualità. La storia, quel bardo crudele che pare rifiutare al mondo ogni magia, ci mostra come a ritrovare un’umanità negata serva ben più dello sguardo di un fanciullo; molto spesso il carnefice vive all’interno di un sistema, folto ed intricato come una foresta di rovi, che la compassione non scioglie, ma a malapena intacca1.
Giunti a questo punto potremmo farci una domanda: come mai la compassione, in altre circostanze così potente nel muovere gli animi, appare invece tanto inerme di fronte agli schemi mentali dei carnefici? Per quale ragione cioè coloro che decidono freddamente, facendo leva sul meccanismo della disumanizzazione, di privare della vita degli esseri umani solo così raramente vengono ostacolati dalla compassione per le vittime? La questione è certamente molto complessa ed esula, in buona parte, dalle risorse di chi scrive; tuttavia mi pare lecito proporre una riflessione che, senza voler esaurire l’argomento, abbia perlomeno il pregio d’introdurlo.
Il termine “compassione” deriva dal latino cum – patior e significa letteralmente “sopportare assieme”; il vocabolo è strettamente imparentato con l’italiano “compatire” ed indica il sentimento che consente ad un essere umano di sentire la sofferenza altrui come propria. Quando perciò qualcuno compatisce un altro individuo, alla base di tutto v’è una profonda ed implicita comunione di natura fra i due, che consente all’uno di partecipare alla vita emotiva e volitiva dell’altro.
Ora, il meccanismo della disumanizzazione intende proprio ostacolare questo processo: attraverso differenti elementi, culturali, sociali, psicologici ed emotivi, il carnefice finisce per percepire un’abissale differenza fra sé e la sua vittima, uno stato di cose che non si consuma solo a livello superficiale ma essenziale. In tal modo la comune e sostanziale fratellanza, che normalmente ogni essere umano sente verso un suo simile, viene negata e, con essa, viene anche impedita ogni forma di compassione. Un meccanismo analogo, anche se in buona parte innocuo, lo sperimentiamo nei confronti degli animali. Con loro quella fratellanza sostanziale cui accennavo non può che essere parziale, ossia limitata a specifici elementi di similarità; per questo se molti riescono a provare una sorta di compassione per i mammiferi, con i quali condividiamo una buona parte degli schemi d’espressione emozionale, pochissimi riescono a fare lo stesso con pesci ed artropodi, che spesso ci appaiono totalmente estranei.
Uomini vuoti
Ma su cosa si fonda questa siderale distanza che il carnefice percepisce fra sé e la sua vittima disumanizzata? In parte certamente su di un processo che tende a sminuire l’evidenza d’umanità che la vittima porta con sé nei propri caratteri; ciò accade sia attraverso un’aggressione fisica, di qualunque tipo, sia tramite la riduzione dell’individualità altrui ad una singola caratteristica elevata a totalità2. Tuttavia, a mio parere, processi simili non possono cancellare totalmente l’evidenza sensibile della natura della vittima. Detto in altre parole, quando l’aguzzino si trova di fronte alla realtà, data dai sensi, dell’umanità dell’altro, ben difficilmente potrebbe negarla se a suo sostengo avesse solo gli accorgimenti esterni elencati sopra. Affinché la disumanizzazione funzioni è, secondo me, necessario che ad essi si aggiunga un intervento interno, qualcosa che agisca nel modo stesso in cui il carnefice percepisce se stesso.
Un indizio su cosa possa essere questo elemento ci viene, inaspettatamente, da un film di fantascienza del 2000, Hollow Man, conosciuto in Italia come L’uomo senza ombra. La pellicola diretta dal regista Paul Verhoeven, già noto per successi del calibro di Basic Instinct, è liberamente ispirata al racconto di Herbet George Welles dal titolo L’uomo invisibile, edito nel 1897. Il film narra la storia del geniale dottor Sebastian Caine che, dopo aver inventato per il Pentagono una formula in grado di rendere invisibile un essere vivente, si trova, con il suo staff, a risolvere un problema ben più complesso: trovare un modo per far ritornare visibili i soggetti. Ottenuto un ottimo risultato con le cavie animali, Caine prova la formula su se stesso, ingannando i colleghi sulle autorizzazioni ricevute, ma scopre di non poter tornare indietro. A questo punto egli si rende conto che il suo stato, ossia l’essere invisibili, lungi dal costituire una maledizione, è in verità un’incredibile fonte di potere e libertà. Iniziandosi a sentire finalmente in grado di esprimere, senza limiti, la grandezza che ha sempre ritenuto di possedere, Caine incomincia e vedere nei suoi colleghi una limitazione, ostacoli da eliminare ad ogni costo3.
Il film si rivela un pregevole thriller fantascientifico, condito da un processo di decadimento morale e psichico descritto con discreta abilità. Ciò tuttavia che davvero c’interessa è una singola frase, detta da Caine dopo essersi macchiato dei primi episodi di violenza: «È incredibile quello che riesci a fare quando non devi più guardarti allo specchio!». Se, come abbiamo detto, ciò che trattiene il carnefice dall’agire contro la sua vittima è la compassione, originata dal riconoscere in essa una comunione reciproca di natura, e se gli atti disumanizzanti esterni non possono del tutto cancellare l’evidenza data dai sensi, allora è forse possibile che ciò che davvero deve essere ingannato sia la percezione che ognuno ha di se stesso? Detto in altri termini: è possibile che il carnefice, per essere tale, debba smettere di concepirsi come fondato su quell’umanità di cui vede l’evidenza nella realtà della sua vittima?
La paura di un volto
Il film sembra andare proprio in questa direzione: Caine, una volta divenuto invisibile, può nutrire l’immaginifica e macroscopica percezione che ha di sé nell’assenza di un volto riflesso, non solo nello specchio ma anche negli occhi delle sue vittime. Aggirata la realtà, il suo ego può aprire i cancelli dell’immaginazione e trascendere a tal punto la sua vera essenza da non riconoscere alcuna somiglianza fra il volto delle vittime e quei lineamenti che nessuno specchio può più negare.
Al di là di questa suggestiva narrazione fantascientifica, è possibile che i carnefici piccoli e grandi del mondo reale fondino, pur senza esserne coscienti, la loro capacità di disumanizzare le vittime proprio su di una concezione del tutto soggettiva e staccata dalla realtà del proprio io? Non si tratterebbe tanto di forme psichiatriche, quanto di un’implicita percezione gerarchica della natura umana. I carnefici, intesi nel senso più ampio possibile, crederebbero cioè ad una visione del mondo in cui tutti siamo esseri umani, ma loro, e magari il gruppo di cui fanno parte, lo sono, in una qualsiasi maniera, più degli altri. Se si accetta il fatto che qualcuno possa incarnare la natura umana nella sua realtà individuale in maniera più profonda e completa di un altro, allora quella comunione sostanziale su cui si fonda la compassione diviene fragile come ciò che ci lega agli animali; non si radicherebbe cioè su di una completa somiglianza spirituale, ma solo su di una più o meno vaga analogia.
Ci tengo a ribadire che è con grande umiltà che mi approccio a tematiche simili e che questa personale riflessione non vuole esaurire il tema ma solo indicarne un possibile sviluppo. Con queste premesse vorrei brevemente affrontare un ultimo punto: come possono i carnefici, nel mondo reale, aggirare la realtà di se stessi per rifugiarsi dietro a queste fumose maschere? A cosa corrisponde cioè l’affascinante invisibilità del dottor Caine? La risposta appare sin troppo semplice: si può mentire a se stessi nei limiti in cui s’ignora la vera natura dell’uomo. Nessuno infatti può ingannarsi più di tanto, poiché il nostro intimo possiede un’innata passione per la verità e non accetta così facilmente le illusioni, per quanto affascinanti esse siano. Ecco che quindi quando l’io concepisce se stesso è in grado di costruire un’immagine irreale solo nei limiti in cui non si vede allo specchio, ossia non conosce la verità della propria essenza. È un processo simile a quello che accade con i nostri cari defunti: solo quando i ricordi, cioè le immagini che conserviamo di loro, si sfaldano possiamo sostituire i pezzi mancanti con quelle splendide e pericolose idealizzazioni che tanto amiamo.
Personalmente ritengo che il profondissimo legame esistente fra la compassione, e quindi la carità che ne è l’attuazione, e la comprensione della natura umana sia stato intuito, a differenti livelli, da moltissimi grandi pensatori. Se ciò fosse vero si spiegherebbe la grande attenzione che filosofi, artisti, teologi e semplici uomini di tutto il mondo e di tutte le epoche concessero al problema della decrittazione del mistero dell’esistenza dell’uomo. I fallimenti in tal senso sono stati moltissimi e si scorgono sotto la tragica cenere dei differenti tentativi di dare corpo alla carità; difatti, ad una concezione errata dell’uomo corrisposero distorte e terribili forme di amore.
Ipotizziamo, per completare la nostra riflessione, che questo binomio appena formulato sia corretto: la migliore concezione della natura umana sarebbe propria di colui che ha espresso in modo più perfetto la sua compassione per l’altro nella carità. Sono certo che molteplici nomi vi siano balenati in mente ma, da cristiano, ci tengo a dirvi, garantendolo sulla mia vita, che nessuno è più grande di quello di Gesù Cristo. Quale amore infatti è più perfetto di quello del Dio fatto uomo e morto per noi in croce? Chi può avere una comprensione più profonda della natura umana del Verbo, da cui ogni cosa è creata, che ha assunto personalmente e fino in fondo il peso di quella carne? È proprio nel volto di Cristo che vediamo riflessa la nostra vera natura e, in essa, quella fratellanza che fonda ogni compassione e carità. Senza di Lui, senza la tremenda oggettività propria esclusivamente dell’Autore della vita, ogni immagine di noi stessi sarà sempre incrinata dalle ferite di un ego corrotto dal peccato per il quale la verità, anche quella su di sé, è fumosa come un ricordo.
Vi lascio con una provocazione, nella speranza che questa piccola meditazione vi sia risultata gradita: è possibile che l’uomo di oggi tema così tanto Dio proprio perché sa, nell’intimo, che alla Luce del Suo Volto dovrebbe svegliarsi da quel triste sogno di cui pensa di non poter fare a meno? È possibile che, proprio come l’uomo invisibile, ciò che davvero teme è di vedere la propria immagine riflessa nel Suo volto e di scoprire che la libertà di cui si vantava altro non era che la crudeltà di un carnefice?
1 Questa tragica tematica, qui solo accennata, trova la sua più evidente espressione nella storia del ‘900; il lettore che volesse approfondire, con uno studio accurato e brutale nei contenuti, faccia riferimento a Keith Lowe, Il continente selvaggio (trad. Michele Sampaolo), Editori Laterza, Bari 2016.
2 Il pensiero va ovviamente alle vittime dei campi di sterminio nazista ed alle tecniche da questi elaborate proprio a tale scopo, anche se la storia presenta moltissimi casi di processi simili. Per una trattazione della questione, focalizzata su di uno specifico caso, cf Valerio Morello, Morire per i “fratelli maggiori”, ESD, Bologna 1995.
3 Le informazioni sul film sono state tratte dalla pagina di Wikipedia Italia “L’uomo senza ombra”, consultata il 19.09.2021.