Attratto da un volto
Quand’ero bambino c’era un film dell’orrore che era capace di terrorizzarmi anche solo per la copertina. Attraversando lo studio di mio padre scorgevo sempre quella videocassetta distrattamente poggiata su altre simili e non potevo fare a meno di distogliere lo sguardo dall’orrendo volto deformato ed urlante che mi fissava1. Eppure, allo stesso tempo, quell’immagine esercitava su di me un fascino incredibile; crescendo, iniziai a desiderare di vedere il film, di sapere quale oscurità si celasse dietro quel terribile viso. Una sera infine mio padre acconsentì e, assieme a lui, guardai per la prima volta The Thing. Fu un’esperienza tragicomica: mentre io scoprivo quanto avessi sopravvalutato il mio coraggio, lui rideva divertito, non so se dalla mia reazione o dal film stesso. In ogni caso, da quel giorno riguardai la pellicola centinaia di volte e ne divenni un vero e proprio cultore.
Per coloro che non lo sapessero, The Thing venne diretto nel 1982 da John Carpenter; arricchito dalle musiche di Ennio Morricone, il film appariva semplicemente il geniale remake dell’opera di Howard Hawks del 1951 dal titolo The thing of another world. Per molto tempo fui convinto che la pellicola da me amata fosse semplicemente il frutto del geniale recupero di un lungometraggio ormai datato; solo di recente scoprii di essermi sbagliato. Ambedue i film infatti altro non erano che trasposizioni di un racconto di fantascienza dal titolo Who goes there?, scritto nel 1938 dal romanziere americano John W. Campbell e pubblicato presso la rivista Astounding Science-Fiction, da lui medesimo diretta2.
Per me, vecchio lettore di fantascienza, una simile scoperta fu una vera benedizione. Mi fiondai sul racconto, arrischiandomi ad approcciarlo in lingua originale3, e ciò che ne ricavai fu la coscienza che lo scritto, capace di narrare la medesima vicenda mantenendo un tono decisamente più riflessivo, era in grado di suggerirmi una più profonda lettura della storia.
È solo un racconto
Sia il film che il racconto fondano, secondo me, una parte non indifferente del loro fascino sul profondo senso di solitudine che sono capaci di comunicare. Non si tratta tanto di quel familiare sapore di vuoto che gustiamo quando non abbiamo nessuno attorno, quanto della sensazione, più infida e strisciante, che quella solitudine non sia accidentale, ma radicata nella natura umana stessa.
Per riuscire a fondare ed a portare a compimento questa mia personale lettura, credo sia il caso di illustrarvi brevemente la vicenda che The Thing propone. Un gruppo di scienziati in Antartide entra in contatto con un alieno, rimasto per millenni congelato poco fuori dalla sua astronave in pezzi. Il pericolo non giunge tuttavia dalla creatura in se stessa, quanto dalla sua struttura cellulare: le cellule aliene infatti, se poste a contatto con le loro controparti terrestri, le divorano e ne imitano alla perfezione aspetto e capacità. A livello macroscopico ciò si traduce nella capacità della “cosa” di generare delle copie quasi perfette, quanto a doti fisiche, mentali e caratteriali, delle sue vittime4. Questi duplicati naturalmente orientano ogni carattere replicato ad un fine estremamente semplice: sopravvivere e diffondersi.
L’elemento fantascientifico è qui funzionale a creare una situazione opprimente di sospetto reciproco e paranoia fra i membri dell’equipaggio della piccola base antartica. Anche se riescono ben presto ad individuare ed eliminare la fonte iniziale della minaccia, si rendono tuttavia conto che chiunque di loro può essere, in realtà, un duplicato alieno, pronto a cogliere ogni buona occasione per attaccare. Il panico e la diffidenza sono ulteriormente acuiti dalla consapevolezza che un simile organismo, qualora giungesse nel mondo esterno, potrebbe tranquillamente causare la fine della vita come la conosciamo.
È solo un’imitazione
Credo che già da questi pochi dati essenziali riusciate e percepire il sottile odore della solitudine di cui parlavo. Se ci trovassimo in quella base antartica dovremmo affrontare due tipi di nemici: gli organismi alieni, indistinguibili, se non tramite specifiche analisi, da un normale essere umano, ed i nostri colleghi umani. Questi ultimi infatti sarebbero una minaccia sotto due aspetti: da un lato, non potendo escludere che siano alieni, andrebbero trattati prudenzialmente come nemici; dall’altro, essendo loro nella nostra stessa situazione, si difenderebbero con tutte le loro forze trattandoci come avversari.
Se analizziamo a fondo il racconto, ci rendiamo conto che questo asfissiante senso d’isolamento non è determinato dalla perfezione dei duplicati. Campbell infatti scrive: «Imitare lo può fare, ma essa (cioè la creatura aliena, ndr) possiede, fino ad un certo punto, la sua propria chimica corporea, il suo proprio metabolismo. Se così non fosse, essa diverrebbe un cane, e sarebbe un cane e nulla più. Tuttavia deve essere l’imitazione di un cane (trad. nostra)»5.
L’autore fa riferimento ad un limite strutturale di stampo biologico nella capacità imitativa, necessario per mantenere l’identità fisica della creatura imitante nei confronti di quella imitata. Appare tuttavia ragionevole supporre che un simile limite, forse anche più marcato, sia applicabile all’aspetto spirituale. In altri termini, se la creatura può imitare fino ad un certo punto le strutture materiali della sua preda, tanto più limitata sarà la perfezione della sua imitazione di quegli elementi, come la mente ed il carattere, che sono di natura spirituale.
Eccoci quindi giunti ad un’inaspettata conclusione: la vera causa della solitudine rappresentata nel film non è la perfezione dei duplicati, bensì la nostra incapacità di conoscere il prossimo abbastanza intimamente da scorgere le differenze.
Carcerieri di sé stessi
Il film mi pare ponga quindi in evidenza un dato fondamentale: il prossimo custodisce sempre un margine di mistero che limita la conoscenza che abbiamo di lui. Si potrebbe pensare che The Thing intenda presentare questa distanza come un difetto della nostra società, l’ennesimo frutto della spersonalizzazione dei rapporti; anche se non posso negare del tutto questa lettura, non credo esprima davvero l’intuizione dell’opera. La vicenda immaginaria proposta infatti fa emergere un dato non culturale ma antropologico, tanto che i circa cinquant’anni che separano il racconto dal film, con tutti i relativi mutamenti sociali, non ne hanno minimamente intaccato il messaggio intrinseco.
Andando al di là delle due opere considerate, ci rendiamo conto di quanto familiare ci sia questa realtà. Anche se la serenità della vita e l’assenza di conflittualità possono spingerci a pensare di conoscere le persone che ci sono vicine quasi alla perfezione, appena le difficoltà, di qualunque genere siano, ci spingono a chiuderci in noi stessi, ci rendiamo subito conto di quanto ampio sia quel margine di mistero che l’altro mantiene. Non si tratta tanto di un’imprevedibilità di stampo statistico, quanto della difficoltà di scorgere in chi ci è prossimo quella totalità interiore che chiamiamo “cuore”. Anche se di molte persone, specie le più intime, conosciamo un gran numero di caratteristiche, intellettive, morali, caratteriali o volitive, ciò che riusciamo a fare è solo una mera addizione, una somma capace di darci un quadro generale dell’altro; impossibile invece è per noi sfiorare quella perfetta sintesi interiore che ognuno percepisce come l’intimo del proprio io.
Il frutto di questa realtà, il vero sapore della solitudine evocata da The Thing, è la tragica difficoltà ad affidarci all’altro, perlomeno laddove la posta in gioco è molto alta. Tale fiducia viene ostacolata sia nell’atto del dare che in quello di ricevere. Il vasto margine d’inconoscibilità dell’altro ci rende cioè estremamente difficoltoso sia sacrificarci, in qualche misura, per fargli del bene sia confidare realmente nel suo sostegno. Se infatti nel primo caso, a fronte del peso della rinuncia, finiamo per chiederci se il prossimo meriti davvero ciò che facciamo per lui, nel secondo percepiamo il tremendo vuoto di quel mistero, temendo così che la nostra fede divenga solo la sciocca esposizione di una debolezza.
Non voglio naturalmente dire che tutti siamo bloccati dal baratro che ci separa dal prossimo e che ci rende così difficile amarlo, ma che ognuno sente con violenza, laddove l’amare costa sforzo, quanto sia arduo attraversarlo. Tutti noi cioè, se siamo onesti, percepiamo un’inquietante familiarità con l’immaginaria solitudine dei personaggi di The Thing, tanto da essere intimamente grati per le piccole serenità che ci risparmiano lo sguardo di quel mistero.
Il cristiano tuttavia non può fermarsi a questa triste constatazione antropologica. Noi che abbiamo promesso di vivere secondo il Vangelo non possiamo non notare quanto la chiamata di Gesù ci spinga a mutare atteggiamento nei confronti dell’impenetrabile intimo del prossimo. Egli infatti non solo ci dice «[…] vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!»6, ma anche «Amerai il tuo prossimo come te stesso»7.
Se nel primo caso c’invita ad una condizione che sia capace di affidare anche l’essenziale alla Provvidenza ed all’amore dell’altro, nel secondo c’insegna che nell’amare, nel donare all’altro ogni bene, dobbiamo agire come se quel mistero non ci separasse, come se fossimo intimi a lui quanto a noi stessi.
Già nell’udirle queste parole ci paiono dure8, e nel meditarle la sensazione non fa che peggiorare. Cristo infatti non dona a noi, suoi discepoli, una qualche infusa conoscenza, una mistica chiave per l’intimo segreto dell’altro; ci chiede tuttavia di mutare lo sguardo su quel luogo oscuro. Nello scorgere la profonda estraneità del prossimo non dobbiamo affrontare nel silenzio la ferocia predatoria che potrebbe scaturirne, bensì contemplare con rispetto il luogo dove quello stesso Signore che conforta noi parla anche a lui. Solo in questo modo la distanza dell’altro non sarà tragica separazione, madre di silenzi, ma splendida distinzione nell’unico Amore che tutti ci lega.
Se accoglieremo questa realtà nella fede, allora saremo davvero liberi: difatti, chi non può amare altri che sé stesso è prigioniero di sé stesso.
1 Sto parlando dell’edizione VHS de La Cosa, edita nel 1982 in Italia e distribuita Columbia Pictures Video.
2 Per tutti questi dati, cf La Cosa (film 1982), pagina Wikipedia consultata il 21/01/2022.
3 Per il testo originale faccio riferimento a John W. Campbell, Who goes there?, Orion Publishing Group, London 2011, pp. 1-75.
4 Le modalità di contatto con l’alieno variano leggermente fra il racconto e la pellicola di Carpenter. Mentre Campbell narra direttamente la vicenda degli scopritori originale dell’alieno, nel film la medesima squadra entra in contatto con la copia di un cane fuggita dal luogo del ritrovamento originale. Questo cambiamento pare essere legato solo al ritmo narrativo, senza intaccare considerevolmente la storia.
5 Campbell, Who goes there?, p. 32.
6 Mc 10, 21.
7 Mc 12, 31.
8 Cf. Gv 6, 60.