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In questa serie di articoli, che con questo ha inizio, vi proporrò alcune riflessioni che ci condurranno a scandagliare la “Parola” e l’esserne predicatori. Già, perché il servizio della Parola o – per dirla con santa Caterina da Siena – l’ufficio del Verbo, è a fondamento di quell’intuizione originale di san Domenico, la quale, ancora oggi, dopo ottocento anni, continua ad animare la nostra vita di frati predicatori. È questo “fuoco dentro” che sin da quel giorno straordinario, la Pentecoste, non ha mai smesso di abitare il cuore dell’uomo e noi, sui passi di Domenico, in modo particolare ci siamo consacrati come servitori della “Parola”.

No, non pensiate che siamo dei privilegiati, non pensiate che siamo meglio di voi…abbiamo semplicemente intuito che tra le fiamme dolci di questo fuoco di amore misericordioso scoperto in noi si intravede il cuore di Cristo, consumato dal fuoco della carità. È come una persuasione, una passione, che vale la pena lasciarsi consumare dal “fuoco”, invitandovi, in ogni modo, a riscaldarvi alla sua fiamma. Sì, la Parola è un fuoco che più ci consuma più ci trasforma, più ci brucia più ci rende uomini e donne lieti, reali, umani, appunto. La nostra è una chiamata che al mondo può apparire una missione di sognatori temerari, ma, in realtà, è così semplice eppur così stravolgente: accogliere e donare, lasciandosi commuovere e avendo compassione, guardando alla cenere che oggi riempi i cuori degli uomini. Lì sotto sappiamo esserci un desiderio nascosto, dietro una vita non vissuta: ardere dello stesso fuoco.

Guai se non fossimo tormentati dal vedere chi vive senza essere vivente, guai se lasciassimo fiorire nel nostro cuore la malerba dell’indifferenza, della pigrizia, dell’incredulità e dello sdegno, chissà cosa accadrebbe, chissà in quale baratro sprofonderemmo…in fondo, è bello essere folli agli occhi del mondo, purché tutto ciò ci conduca pian piano, imparando ad amare, in una progressiva trasformazione – che è piuttosto un lasciarsi trasformare – del nostro povero cuore nel cuore di Cristo. Cioè? Saper scorgere anche in una briciola il riflesso del volto del Padre, il quale, in una “Parola” che i cieli odono dall’eternità, ci ama di amore eterno.

Ebbene, ci siamo consacrati per vivere, anzitutto e, poi, per trasmettere, l’ardore di una Parola che conforta, riscalda e consola, per scoprire che anche in quel cuore devastato dal peccato c’è ancora una Voce che chiama alla Vita, c’è ancora della brace scoppiettante sotto la cenere. Insomma, questa “Parola” è Amore, è Misericordia, è Verità, è dolcezza, è condivisione, è compassione, è libertà, è anche de-costruire per costruire. Questa “Parola” allora si traduce nell’essere appassionati, arsi, testimoni del Salvatore, al servizio del Verbo della Vita.

La “Parola” dunque. Non vi nascondo che mi meraviglia sempre pensarci…Predicare la Parola, in ogni modo, in ogni luogo, in ogni occasione, opportuna e inopportuna, con una sola finalità: la salvezza dell’anima, nostra e altrui. Ciò è straordinariamente compendiato nella nostra Costituzione Fondamentale – una sorta di carta costituzionale, gerarchicamente sovraordinata ad ogni altro documento -:

«Divenuti, con l’ordinazione sacerdotale1, cooperatori dell’ordine episcopale, noi abbiamo come compito speciale l’ufficio profetico: dobbiamo cioè annunciare dovunque il Vangelo di Cristo con la parola e con l’esempio, tenendo conto delle diverse condizioni di persona, di tempo e di luogo, perché nasca la fede o perché questa più profondamente compenetri tutta la vita per l’edificazione del Corpo di Cristo, edificazione che trova il suo compimento nei sacramenti della fede2».

Eppure la “Parola” non dovrebbe subito sollecitare l’immaginazione ad elaborare, in un’interpretazione “romantica”, la figura del predicatore missionario, o professore, o scrittore, o grande oratore…Almeno, non immediatamente. Perché? Beh, perché la “Parola” può essere autenticamente trasmessa solo dopo aver abitato il deserto.

A questo proposito riporto un passo tratto dai Discorsi di un santo confratello, Ludovico Bertrán (1526-1581) – oggi, a ragion veduta, patrono dei noviziati domenicani -. Una precisazione (il cui senso lo comprenderete in seguito): san Ludovico fu realmente un grande predicatore, missionario ed evangelizzatore della Colombia. Osservate bene cosa scrive:

«Lo Spirito Santo trattiene nel deserto Giovanni (il Battista, ndr) […] lì lo adornava di tante virtù, di umiltà, di mansuetudine, eccetera, da uscire egli dal deserto dopo essere stato trasformato in sale per liberare gli uomini dalla corruzione; trasformato in luce per illuminare i ciechi, in città fortificata nella quale potessero rifugiarsi i santi e i virtuosi. Che l’ufficio di predicatore sia eccelso, risulta dal fatto che esige tale preparazione. Perché allora ti meravigli, fratello, se la tua dottrina non porta frutto, quando per predicare non parti dal deserto ma dallo strepito della tua anima, non dall’intimo possesso delle virtù ma da uno stato d’animo orgoglioso? Per riuscire un buon predicatore, devi provenire dal deserto. Se Cristo nostro Signore passò tutta la notte in preghiera, soltanto perché stava per mandare i suoi discepoli a predicare, e affinché la loro predicazione portasse frutti, che cosa farà un buon predicatore?».3

È curioso che queste parole provengano proprio da un grande missionario…Ma, qualcuno di voi ha mai visto il deserto? Non molti, forse, – o meglio – se per vedere includessimo l’averlo ammirato su una cartolina, certamente il numero crescerebbe. Ora, vediamo…qualcuno di voi è mai stato nel deserto? Ancor meno di prima probabilmente, io no. E, adesso…qualcuno di voi ha mai abitato il deserto? Immediatamente tutti risponderemmo di no, ma bisogna badare ai termini del quesito: non ho chiesto “abitare nel deserto” ma “il deserto”… L’utilizzo transitivo del verbo abitare ci consente di operare un’astrazione che -per così dire- ci colloca ad un piano sopraelevato rispetto alla materialità del deserto. In tal modo, l’indagine è traslata su un piano differente, quello dell’immaginazione. Immaginiamo dunque il deserto, sì, anche se non ci siamo mai stati, quello che abbiamo visto in televisione, in una fotografia, in un’immagine qualsiasi.

Continuiamo ad esplorare il concetto di “deserto”, cosa ci evoca? Calura, arsura, sete, annebbiamento, lotta, smarrimento, sconfinatezza e…solitudine. Ora provo a riproporvi il quesito iniziale: avete mai abitato il deserto? Immagino che, anche all’esito di questi tempi difficili, non pochi abbiano abitato il deserto… Ma – e andiamo sul difficile…- chi ha attraversato cristianamente il deserto? C’è chi ha creduto di potervi abitare, divenendo un misantropo sconfitto, c’è chi ha creduto di poterlo evitare, divenendo un superficiale illuso, c’è chi s’è perduto, e ora, come un orgoglioso girovago sta ancora aspettando che qualcuno lo vada a prendere, c’è chi lo ha attraversato, è divenuto più “umano”, c’è, infine, chi lo ha attraversato cristianamente, ecco, è un bambino nel cuore.

Solo chi ha colto l’indispensabilità del deserto, avendo però la coscienza originaria della temporaneità formante di questo passaggio, ne è uscito bambino anche se anziano: è rinato, dunque ne è uscito vittorioso, poiché ha compreso di non poter vincere da solo.

È interessante che il termine “deserto” derivi da desertus, participio passato di desèrere, cioè abbandonare, lasciare in abbandono; “deserto” è, poi, composto da de- e sèrere (connettere), ossia senza punto di connessione. In altri termini, l’assenza di ogni riferimento. Ecco, possiamo dire che il deserto sia per antonomasia il luogo spirituale della radicalità essenziale.

In una lotta invisibile e profonda – a tratti tremenda – il deserto ci conduce inermi ad una scoperta identitaria: scopriamo la nostra miseria, la nostra pochezza, le nostre voragini interiori, il nostro essere mendicanti di misericordia, ma, al contempo, come in un abbraccio soave, gustiamo la potenza redentrice del sacrificio di Cristo. Veniamo come scolpiti dallo Spirito e inondati dall’infinito amore misericordioso del Padre che ci riempie il cuore: eccoci, spogli; siamo come rinati, con un fiammifero in mano; eccoci, ora sì, con la persuasione del prigioniero riscattato, siamo pronti per partire come uomini col fuoco dentro portando in sé, sempre, un frammento dell’esperienza4 del deserto.

Non stupisce allora che Domenico fu, anzitutto, un uomo del deserto, un uomo di Dio dal cui cuore sgorgò una Parola fondata sulla Redenzione per mezzo di Cristo5 alla luce della quale tutto risplende. Così, anche nel nero si intra-vede il bianco, anche nella prova si intra-vede il Paradiso, anche in un petalo si contempla l’Universo e la magnificenza del Creatore, anche in un cuore “malato” si è compassionevolmente attratti dalla sua sete di Dio.


1 Su questo punto occorre prestare attenzione. Certamente, «Il ministero della parola e dei sacramenti della fede è un ufficio sacerdotale (pertanto, ndr), il nostro Ordine è clericale» (Cit. Libro delle Costituzioni e delle Ordinazioni dei frati dell’Ordine dei predicatori, ed. Napoli: Editrice Domenicana Italiana, 2005, pag. 26, § III – Costituzione fondamentale). A tale missione partecipano tuttavia anche dei frati non sacerdoti, detti “cooperatori”, che esercitano in modo speciale il sacerdozio comune. Sulla preziosa figura dei frati cooperatori verrà dedicata una specifica pubblicazione in seguito.

2 Cit. Ibidem. Si riporta anche un altro eloquente passo estratto, questa volta, dal testo delle Costituzioni: «Come nella Chiesa degli Apostoli, anche la nostra comunione ha le sue fondamenta, trova il suo sviluppo e la sua stabilità nello stesso Spirito: in Lui riceviamo il Verbo di Dio Padre con la stessa unica fede, lo contempliamo con lo stesso unico amore e lo lodiamo con una stessa unica voce; in Lui formiamo un solo corpo nutrendoci dello stesso unico pane; in Lui, infine, abbiamo tutto in comune e siamo destinati a una medesima opera di evangelizzazione». Solo su queste poche righe si potrebbero realizzare diverse meditazioni… Ad ogni modo, si noti come già dal dato testuale emerga la convergenza verso un’unica finalità. No, non si pensi all’immagine degli affluenti che confluiscono nel corso principale del fiume poiché porta fuori strada… nell’Ordine l’individuo rimane tale arricchendo e, proprio in forza di ciò, costituisce relazioni mature e -nuovamente- in ragione di ciò si può pensare ad una condivisione reale del fine. Se volete…l’immagine potrebbe essere quella di un aiuola di fiori, ciascuno ha una sua peculiarità ma vivendo sullo stesso terreno lo rendono variopinto, ciascuno a suo modo.

3 Cit. Supplemento alla Liturgia delle Ore secondo il calendario proprio dell’Ordine dei Predicatori, Province domenicane d’Italia, 1999, pag. 771.

4 Potremmo disquisire teoreticamente del deserto, quindi della conversione del cuore, della necessità di imparare dalla solitudine una maggiore coscienza di sé etc. ma una teoresi è insufficiente, serve l’esperienza: occorre cioè aver sperimentato, in ultima analisi, il proprio essere unicamente in relazione al Creatore, conoscendosi cioè in profondità, come peccatori salvati e riconciliati in Cristo.

5 Cf. sul punto: Guy Bedouelle, Domenico – la grazia della parola, ed. Roma: Borla, 1984, cap. decimo, pag. 175.

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