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Prima siamo e poi progettiamo oppure prima progettiamo quindi siamo? Potrà apparire piuttosto bizzarro a prima vista ma, a seconda della nostra risposta, dipenderà, in buona parte, la visione che abbiamo del mondo. Altrettanto curioso può apparire che, proprio attorno a questo quesito, si giochi una cospicua parte della struttura dell’etica, vertendo tutto ciò sul tema della libertà.

Si potrebbero intraprendere due strade per immettersi nell’analisi del termine libertà. La prima consentirebbe di scandagliare il ricchissimo, stimolante e consigliabile percorso che a partire dall’impostazione pre-socratica, per passare a quella aristotelica, passando per lo stoicismo, per poi saltare all’umanesimo, a Spinoza, poi a Kierkegaard, Kant, Fichte, Hegel, Gentile, quindi a Heidegger e a Sartre, e molti altri, fino ad oggi, conduce a meravigliarsi, scoprendo in che modo le varie impostazioni filosofiche hanno affrontato l’affascinante tema della libertà. Sono tutti scorci interessantissimi, più o meno condivisibili. Sarebbe un percorso indubbiamente valido, soprattutto se affrontato in chiave teoretica, ma in poche righe richiederebbe un bagaglio di nozioni date per assodate non indifferenti. Dunque, è il caso di optare per una via altrettanto valevole e sintetica che, in un certo senso, consente di addentrarsi ugualmente nel tema della libertà, ma da una porta diversa, alla volta di un sentiero un po’ più escursionistico. In chiave, direi, più analitica che filosofica – ove per analitica, intendo un approccio metodologico in grado di penetrare maggiormente nell’analisi profonda del proprio io -. Occorre ritornare, a questo proposito, alla domanda posta all’inizio.

Certamente, il considerarsi essenze progettanti o progetti esistenti è una questione determinante, del resto, più semplicemente, siamo uomini che scelgono oppure uomini solo in virtù di scelte operate? Ciò introduce senza scorciatoie ad una prospettiva pragmatica con cui inquadrare la questione della libertà. Potrebbe essere una buona linea da seguire ma – io penso – conduce ad un eccessivo sbilanciamento sull’esteriorità. Mi spiego. Il nocciolo della libertà non si trova nell’azione: anche una rivoluzione, del resto, può essere fomentata e condotta da schiavi. Non mi riferisco solo a coloro che pur in una condizione esteriore di schiavitù a fatica riescono a mantenere un alveo di libertà interiore, nella fede, ad esempio, ma a coloro che arrabbiati e frustrati si lanciano in folli lotte in cui prima di impugnare le armi occorrerebbe averle deposte nel cuore. Non possiamo guardare alla libertà, anzitutto, come azione. L’agire è solo un riflesso pratico di una libertà già acquisita nella profondità di sé. La libertà è anzitutto questione di interiorità, raggiunta dalla luce di lanterne che progressivamente ci illuminano. A ben vedere, credo che la fonte più profonda della libertà sia la disponibilità a dialogare invisibilmente.

Disposti a dialogare con ogni parte di sé in sé stessi

Bella questa espressione: dialoghi invisibili. Tutto si gioca qui, in questa intimità, in cui la storia di ognuno può divenire rete o trampolino, disperazione o urlo d’aiuto, buio o luce, cesura o relazione, pugno chiuso o mano tesa…

Cari amici, non è forse vero che la libertà è ontologicamente, essenzialmente, dialogo? Non è forse vero che – in altri termini – la libertà interiore dialogica e previa è condizione imprescindibile perché la nostra libertà esteriore non divenga anarchica illusione? Checché se ne dica, il piano fondativo della libertà non ha nulla a che vedere con l’azione. È forse mia intenzione, a tal proposito, negare ogni risvolto pratico della libertà? Sarei folle… Del resto la storia, in questo senso, è veramente maestra. Rilevo piuttosto che il primo parametro di autenticità della libertà sia l’essere non l’agire. Libertà allora è presenza totale di sé in sé, senza crepacci interiori che frantumano la nostra vita in tanti frammenti illusoriamente indipendenti. Il dato primo è dunque un’unità interiore che è di fatto mano continuamente tesa nella propria storia prima che pretesa di fare la storia con reclamate libertà superficiali e, appunto, pseudo-anarchiche.

Bisognosi di un’unità dialogica profonda

C’è unità in noi? La nostra storia è una gabbia infantile mai aperta oppure un’adultitudine – mutuando questa profondissima espressione dalla Fenomenologia di Hegel – umana, capace di seminare pace perché abitata dalla pace, di diffondere umanità perché interiormente integra? Il valore della persona non è dato dalla capacità progettuale oppure dal suo agire ma, appunto dal suo essere, anzitutto, persona. E chi è persona? Potrei dire così, tra le molte descrizioni che al momento mi sovvengono: è un uomo, una donna, che sa di non trovare in sé un bambino, una bambina, abbandonato/a. Il passato che è in noi rivive e si concilia non nell’oblio forzoso ma nella fecondità di un dialogo capace di integrare un passato bello e/o doloroso, triste e/o gioioso… nel presente, senza che prevalga, ma si amalgami armoniosamente in proporzione al nostro desiderio di dialogare con esso.

Noi, naturalmente – quindi, essenzialmente -, non ci risolviamo nella storia, nemmeno la storia in cui siamo inseriti ci determina, siamo anzitutto noi, bambini e bambine, a trovare la nostra adultità nella storia in cui viviamo, nella quotidianità.

Eppure, è vero, dunque bello, pensare alla nostra adultità come capacità di prendere per mano un bambino che chiede attenzioni nel nostro cuore. Nessun passato, nemmeno il più drammatico, può scusarci nel dormire mentre quel bambino, dentro di noi, piange.

È la nostra storia, non si cancella, chiede solo di essere considerata, accolta, accudita, scrutata, con gli occhi di un presente capace di non lasciarsi travolgere. Ecco la maturità: non lasciare nulla indietro, inascoltato; raccogliere e discernere; ecco la libertà: un’ontologia del dialogo, riflessiva e relazionale, – nella sua accezione più radicale – che non ci dà scampo e richiede attenzione, giorno e notte.

E noi, abbiamo orecchi e occhi per scoprire la preziosità della fanciullezza che ci abita perché anch’essa divenga e si risolva in autentica adultità nel presente? Desideriamo colmare i nostri vuoti storici interiori perché anche il dolore più profondo ha diritto di essere ascoltato? Siamo pronti a fare della nostra storia un’occasione di inveramento di noi stessi nel presente?

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