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Il peso della corte

Ogni volta che finiamo di leggere un romanzo, perlomeno quelli di recente pubblicazione, c’imbattiamo in una sezione che ci lascia spesso perplessi: i ringraziamenti. Anche se inizialmente ci complimentiamo con lo scrittore per l’aver ridimensionato il proprio ego, in realtà vediamo in quelle righe una forma di ipocrisia; non crediamo cioè realmente che il genio che abbiamo riconosciuto debba la sua arte alla moglie casalinga o al marito impiegato, né ci convinciamo che l’affetto dei figli, per quanto importante, possa avere un ruolo davvero rilevante. Quelli di noi che si sentono più romantici, possono giungere a pensare che ciò che l’autore davvero voleva elogiare era la capacità, quanto mai preziosa, dei suoi familiari di sparire al momento opportuno, lasciando che la genialità, splendida e solitaria fiaccola, ardesse per conto proprio.

Anche se non nego che per alcuni scrittori questo possa realmente essere vero, penso che per molti di loro il significato sia più profondo. La grandezza di un’opera infatti permette, all’animo umile, di riconoscere la sproporzione fra essa e la limitatezza di lui che l’ha realizzata; ciò non solo consente di offrire a Dio lavoro svolto, ma anche di scorgere quella corte silenziosa che, lungi dal limitarsi a farsi da parte, rimuove ogni ostacolo fra noi e la grandezza.

Se proviamo a guardare la nostra vita con un pizzico di onestà vedremo l’elenco di queste “ombre” allungarsi a non finire, a partire da quella insostituibile e prima che sono i nostri genitori. Sto parlando di persone che, con grande spirito di sacrificio, si accollano molti dei pesi della nostra vita per consentirci di cavalcare più veloci e più lontano lungo il sentiero che abbiamo imboccato. Queste figure, presenti e preziose in ogni ambito, nell’Ordine dei Frati Predicatori prendono il nome di frati cooperatori.

Un uomo sempre in ascolto

Con questo titolo si indicano dei religiosi domenicani che, pur avendo professato i voti come chiunque altro, non sono stati ordinati sacerdoti. Ora, riprendendo le parole della nostra Costituzione Fondamentale, «Siccome il ministero della parola e dei sacramenti della fede è un ufficio sacerdotale, il nostro è un Ordine clericale […]»1; ciò implica che i cooperatori partecipano alla sua missione in molti modi differenti. Facendo leva sulle proprie attitudini, il cooperatore si fa carico delle incombenze più pratiche della vita conventuale allo scopo di conservare le preziose energie dei confratelli sacerdoti per la conversione delle anime.

Questa via di santificazione, alta espressione dell’umiltà di Cristo, è stata più volte riconosciuta dalla Chiesa attraverso la canonizzazione e la beatificazione di figure di particolare esemplarità. Una di queste è sicuramente quella del beato Giacomo da Ulm, nato nel 1407 ad Ulm, sul confine con la Baviera2 e morto a Bologna il 12 Ottobre del 1491 all’età di 84 anni3. Figlio di un certo Teodorico, cristiano devoto e uomo dai sani costumi, Giacomo non solo apprese, nella sua città natale, l’arte della fabbricazione delle vetrate istoriate, ma soprattutto radicò la sua vita in Cristo sin dalla giovinezza. Partito in pellegrinaggio verso Roma nel 14324, per una serie di vicende di natura economica e morale passa molti anni nell’Italia meridionale finché, nel 14415, giunge a Bologna. Deciso inizialmente a lavorare come guardia comunale, con l’intento di guadagnare un po’ di soldi da riportare a casa, rimane profondamente colpito dalla santità della vita dei frati Predicatori di Bologna e chiede di entrare nell’Ordine. Accolto l’anno stesso, riceve l’abito dei frati cooperatori a causa della sua età “avanzata”6 e, superato l’anno di noviziato, professa i voti religiosi.

Farsi cultura del Signore

Il beato Giacomo trascorre i suoi quasi cinquant’anni di vita religiosa diviso fra due compiti: la sua profonda vita spirituale, personale e comunitaria, e la gestione dell’officina vetraria del convento. Le abilità artistiche del beato Giacomo erano tali che non solo gli hanno permesso di fondare una vera scuola, ma gli hanno garantito un posto fra gli artisti tardo medievali7.

Qui tuttavia vorremmo concentrarci un attimo sulla sua santità personale, per comprendere meglio la natura di questa stupenda vocazione. Le testimonianze dei suoi contemporanei ci descrivono un uomo mite, ubbidiente, mai ozioso e, cosa più importante, ben conscio della santità della sua chiamata. Quest’ultimo elemento ci sembra il più importante per capire il modello di santità che il beato Giacomo ci ha lasciato. Nel momento in cui ha consegnato a Dio e all’Ordine la sua vita, egli non ha abbracciato una via per mettere a frutto i suoi talenti, fosse anche quella della Gloria del Signore, ma si è semplicemente messo a disposizione. Come il servo, che attende vigile il momento in cui le sue abilità saranno utili al padrone, così il beato Giacomo ha offerto a Dio se stesso, e non ciò che di se stesso riusciva ad amare. Il suo silenzio, un silenzio dell’anima prima ancora che del corpo, nasceva dal riconoscersi piccolo ed incapace anche nel valutarsi. Ciò gli permise, senza falsa modestia, di lasciarsi coltivare da quella Provvidenza che tanta parte, come si è brevemente visto, ebbe nella sua vita.

Quando quindi, venendo nella basilica di San Domenico a Bologna, ci poniamo in silenziosa preghiera di fronte al corpo del beato Giacomo, ricordiamoci che la santità cui il Signore ci chiama non si nutre né di una fatalistica passività né di un monopolistico attivismo, bensì di quella spontanea collaborazione alla “coltivazione” di noi stessi che Dio, con garbo, ci chiede.


1 Cfr. Costituzione fondamentale dell’Ordine dei Frati Predicatori, n. VI, EDI, Napoli 2005.

2 Cfr. Alfonso d’Amato, Un maestro dell’arte delle vetrate istoriate, Edizioni Luigi Parma, Bologna 1991, p. 11.

3 Cfr. ibidem, p. 87.

4 Cfr. ibidem, p. 13.

5 Cfr. ibidem, p. 19.

6 Aveva allora 34 anni e, nonostante avesse compiuto alcuni studi nella sua città natale, non era abbastanza giovane da portare avanti tutto il percorso di studi necessario; cfr. ibidem, pp. 19-25.

7 Una delle sue maggiori opere è la vetrata della Cappella della Santa Croce o dei Notai nella basilica di San Petronio a Bologna, realizzata fra il 1464 ed il 1465; cfr. ibidem, pp. 57-58.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it